Il sistema previdenziale italiano si basa su tre pilastri: previdenza pubblica, previdenza complementare collettiva e previdenza complementare individuale
Vinci: “Con il sistema contributivo l’assegno pensionistico sarà inferiore all’ultimo stipendio, mediamente ne rappresenterà il 60%. Ed è qui che arrivano i fondi pensione”
Quando andremo in pensione? Per i giovani con meno di 35 anni si tratta di una meta lontanissima, si calcola che dovremo aspettare i 75 anni. Senza dimenticare che l’importo potrebbe non essere quello atteso, considerando che si parla di un assegno medio sui 1.000 euro al mese. Una prospettiva che restituisce l’immagine di un sistema pensionistico che “non regge”, come recentemente denunciato da Marcello Pacifico, presidente nazionale dell’associazione professionale sindacale Anief. Ma esiste un modo per integrare il proprio reddito.
Come funziona la previdenza in Italia
“La previdenza può essere vista come una casetta, che per stare in piedi ha bisogno di pilastri”, spiega a We Wealth Anna Vinci, co-founder di Elsa. “Il primo pilastro è costituito dalla previdenza pubblica obbligatoria, quindi l’Inps o le altre casse professionali cui siamo obbligati a pagare i contributi”. Una volta, ricorda infatti Vinci, si andava in pensione con il sistema retributivo che – come dice la parola stessa – si basava sulla media delle ultime retribuzioni. In altre parole, che tu lavorassi e guadagnassi tanto o poco per l’intero arco della tua vita, veniva considerato unicamente l’ultimo decennio. “Dal 1996 siamo nel sistema contributivo, secondo il quale la pensione si calcola in proporzione a quanti contributi ho versato”.
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Ma come funziona? “I contributi vanno versati per l’intera durata della vita lavorativa. Ai dipendenti vengono in parte trattenuti in busta paga, in parte li versa il datore di lavoro. I lavoratori autonomi e i liberi professionisti, invece, se li pagano da soli, versando gli F24”, spiega l’esperta. “Ogni anno, se sei un dipendente per esempio, viene versato all’Inps il 33% del tuo reddito lordo, o meglio dell’imponibile previdenziale. Il 9,19% te lo trattengono in busta e il restante 23,81% lo versa il datore di lavoro”. Facciamo un esempio pratico. Ipotizziamo si tratti appunto di un lavoratore dipendente, che ha incassato per i primi 20 anni una Retribuzione annua lorda (Ral) media di 20mila euro e per i successivi 20 anni una Ral media di 40mila euro. Con questo reddito, sulla base delle variabili che citavamo prima, si troverà nel suo “cassetto Inps” 400mila euro. “Se a 67 anni si presenterà all’Inps, non gli restituirà di sicuro tutti i 400mila euro”, avverte tuttavia Vinci. “Lo Stato guarderà la media della speranza di vita in quel momento e creerà l’assegno pensionistico”. In altre parole, alla fine l’assegno pensionistico rappresenterà circa il 60% dell’ultimo stipendio.
Fondo pensione: cos’è e a cosa serve
“Quindi il primo pilastro da solo non regge la casetta”, dichiara Vinci. Per questo esistono altri due pilastri, ovvero la possibilità di destinare il Tfr ai fondi pensione (in forma individuale o collettiva) e la previdenza integrativa individuale (che ognuno può realizzare attraverso forme di risparmio individuali per integrare sia la previdenza pubblica obbligatoria che quella collettiva). “I fondi pensione sono in generale strumenti, regolati da una legge dello Stato, che qualunque lavoratore in Italia può aprire e versarci Tfr e/o risparmi. In entrambi i casi, ci sarà un vero e proprio risparmio di tasse”, spiega Vinci. “In altre parole lo Stato ci sta dicendo: siccome posso mantenerti fino al 60%, se a colmare il gap ci pensi tu, ti premio”.
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