Dal 19 gennaio 2024 Claudio Detti di Deutsche Bank è (con Giordano Villa) co-head della private bank Italy, e in particolare head of wealth management & bank for entrepreneurs Italy. We Wealth lo ha raggiunto per una chiacchierata di ampio respiro sul futuro dell’industria e della gestione dei grandissimi patrimoni, nonché sulle virtù della cultura bancaria italiana unita a quella tedesca, ottenendo qualche dritta sul 2025 dei portafogli. Con una interessante digressione su risparmio gestito e classe media.
Dr. Detti, nel corso della sua attività professionale in Deutsche (e non solo) che tipo di evoluzione ha riscontrato nell’approccio alla gestione dei grandi patrimoni?
«Un’evoluzione in termini organizzativi. I grandi clienti oggi si chiedono quali modalità adoperare per seguire il loro patrimonio, ancor prima di come investirlo. Idealmente, le risposte sono tre: multi family office, single family office, banche. Nel primo caso si pagano delle fee perché qualcuno supporti il cliente nelle scelte, ingaggiando poi le banche. Con un singolo family office, ci si organizza autonomamente, affrontando le scelte con professionisti che sono alle proprie dipendenze. Nel terzo caso, ci si sceglie autonomamente le banche da cui farsi accompagnare. Il tratto comune a tutti i clienti rispetto a una trentina di anni fa è la ricerca di una maggiore professionalizzazione nella gestione degli asset sopra i 50 milioni di euro».
Fra le tre, qual è la modalità che i clienti preferiscono?
«Ancora oggi le banche di relazione rappresentano il 50% del totale. I multi family office, il 30%; i family office singoli, il 20%. Il singolo family office implica degli importanti costi di struttura, e va in scala solo superate certe soglie: 50 milioni di euro non sono sufficienti. Ne servono almeno 200 milioni; occorrono i liquidity event: la nuova ricchezza finanziaria si crea così».
Quali di queste modalità offre Deutsche Bank?
«Ovviamente siamo presenti laddove si richieda una banca di relazione. Poi siamo a disposizione dei multi e dei single family office. Siamo attrezzati per ogni tipologia. Si sceglie Deutsche perché è una banca d’affari vera, con una presenza globale autentica. I contenuti e le competenze di questa banca non sono comuni. Chi ci sceglie lo fa perché da noi trova risposte che fa fatica a trovare altrove».
La cultura tedesca quanto può far bene a noi ‘indisciplinati’ italiani?
«I tedeschi sono molto organizzati e questa loro disciplina si traduce in processi da seguire. È un elemento che funziona molto bene, perché lascia poco spazio a errori di distrazione. Però con i grandi clienti può diventare un limite. Nel rispetto delle regole societarie, la nostra ‘italianità’ è di grande aiuto all’interno del gruppo, non solo in Italia. Due dei membri del management board sono italiani (Fabrizio Campelli, Claudio De Sanctis, ndr). Deutsche Bank accetta la capacità italiana di avere visione, la fa sua nell’ambito di alvei ben definiti. Del resto, l’Italia è il secondo mercato domestico della banca, possiede un peso specifico molto forte. Uniamo le virtù delle due culture, una visione più dinamica e una più strutturata».
Dr. Detti, cosa apprezza in Deutsche?
«Le persone, con le loro competenze straordinarie. Sono arrivato qui e ci resto per questo motivo. E poi, ripeto, la presenza globale vera. La reputazione è la forza del marchio di Deutsche».
Come vede il futuro del private banking e del wealth management?
«Ripendo i più recenti dati di Aipb. Le famiglie italiane possiedono circa 3500 miliardi di ricchezza investibile totale. Nel 2017 c’erano 1000 miliardi in meno: ciò vuol dire che si risparmia. Oggi il pb serve circa 1200 di quei 3500 miliardi. Significa che restano fuori dal perimetro dell’industria molti miliardi che potrebbero essere al momento non correttamente gestiti. Si tenga conto che l’89% dei clienti del pb in Italia dà valori massimi alla professionalità del consulente che li segue nella scala di valutazione. Il potenziale per una crescita di qualità è enorme».
Dr. Detti, quali le novità (rivelabili) che ci saranno in Deutsche nel 2025?
«Il private banking e il wealth management, due verticalità distinte a mio riporto, cresceranno organicamente, anche grazie ad assunzioni mirate».
Guardando all’industria nel suo complesso, qual è la figura professionale che manca di più?
«È in atto un cambiamento generazionale nella figura del banker. Noi dobbiamo aiutare i giovani a entrare in questa professione. Vedo brillantissimi laureati che la scelgono, o anche colleghi che provengono dall’investment banking e abbracciano la professione del wealth manager. Scorgo una evoluzione molto positiva nel mercato, anche se il ricambio generazionale nei professionisti non è ancora dominante. Ma siamo proiettati verso il futuro, la proporzione di persone molto competenti e motivate sta aumentando. Il sistema universitario sta formando molto bene i giovani, soprattutto i laureati di Bocconi e Cattolica hanno idee molto chiare».
Vuole dire due parole sull’annosa diatriba delle fee?
«In Deutsche Bank abbiamo due livelli di consulenza, una di base e una avanzata. Il futuro è in quest’ultima. Vedo con molto favore le commissioni di consulenza. Avere una vista sul portafoglio nella sua interezza, ed essere remunerati per il valore aggiunto che si riesce a dare, è quello che va fatto. Ma ci vuole ancora del tempo per arrivare alla pienezza di questo tipo di servizio».
Serve un cambiamento culturale?
«Si. Ma il figlio che prende il posto del padre nella gestione patrimoniale della famiglia sta comprendendo già molto bene questo tipo di soluzione».
Pensa che il risparmio gestito possa ricostituire la depauperata classe media dei risparmiatori?
«Al di là del private banking, la banca è molto focalizzata anche sulla fascia cosiddetta affluent e upper affluent. I clienti che hanno da parte 50, 100mila euro sono forse la stragrande maggioranza dei risparmiatori italiani. Il risparmio gestito aiuta eccome a consolidare e accrescere queste consistenze patrimoniali. Il tema è culturale: bisognerebbe accettare di gestire il denaro, anziché tenerlo sul conto. Faccio però una riflessione più ampia: il ceto medio si fa anche con stipendi ed emolumenti che sono più adeguati al costo della vita. Non è solo grazie alla gestione di un portafoglio finanziario che rendiamo la gente più ricca e felice. Occorre che si guadagni un po’ di più».
Lo scenario macroeconomico nel 2025.
«Limito il mondo a Stati Uniti ed Europa, che per i nostri investitori sono le due aree di investimento più importanti. Gli Usa mostrano una resilienza molto forte nei consumi. I tassi statunitensi resteranno sostanzialmente elevati per diverso tempo, al contrario che in Europa. Il Vecchio Continente rispetto agli Stati Uniti si troverà a fronteggiare una situazione di maggiore disgregazione interna, scarsa unità decisionale, che si tradurrà in un ciclo economico più debole. Vediamo gli Usa con un Pil 2025 al 2%. L’Ue a malapena raggiungerà l’1%.
Di contro, l’inflazione Usa si attesterà al 2,4%, quella europea al 2%. I tassi Fed arriveranno al 4%, con al massimo tre tagli. Noi probabilmente arriveremo sotto al 2% con cinque tagli. Il dollaro resta in rafforzamento sull’euro in area 1,05. È un mondo in cui l’obbligazionario governativo nell’area euro sarà sicuramente interessante, come quello statunitense a breve. Sul fronte azionario, nel 2025 quello a stelle e strisce avrà una doppia cifra di crescita, mentre quello europeo resterà intorno al 6%. La tecnologia resta l’area di investimento privilegiata per Deutsche».
Infine, chiediamo a Claudio Detti un commento sugli ultimi conti (al 30 settembre 2024) di Deutsche Bank. Il dirigente si dice «molto contento della solidità patrimoniale della banca, che trimestre dopo trimestre la conferma in modo consistente.
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