L’industria dei certificates guarda con insperata serenità la sabbia che scorre nella clessidra. Il governo ha meno di un anno di tempo per attuare le parti mancanti della riforma fiscale, in particolare il capitolo che prevede il superamento della distinzione fra redditi da capitale e redditi diversi di natura finanziaria. Una demarcazione che, finora, ha offerto un chiaro vantaggio ai certificati, i cui profitti possono compensare eventuali minusvalenze di fondi ed Etf. Per il momento, a giudicare dal silenzio della maggioranza di governo sul punto, non sembra affatto una priorità destinare budget a questa parte della riforma. Ma gli emittenti dei certificati, presenti quasi al completo al Fee Only Summit 2024, la kermesse della consulenza finanziaria indipendente, hanno anche altri motivi per rallegrarsi.
Anche se il vantaggio fiscale dei certificates dovesse venire meno, concordano quattro player, raggiunti da We Wealth, l’industria dei certificati resisterà al colpo. Le caratteristiche di questi prodotti, che impacchettano bond e opzioni in varie forme, sono ormai apprezzate per una pluralità di caratteristiche che vanno oltre la possibilità di poter compensare le minusvalenze accumulate altrove. In particolare, sono apprezzati per la possibilità di offrire cedole relativamente alte, anche in condizioni di mercato azionario statico o in modesto ribasso.
L’unica eccezione, concordano tutti gli attori, sono i certificates benchmark/tracker, che somigliano agli Etf sotto molti aspetti, anche se costano di più. “Da investitore, trovo giusto il superamento delle distinzioni dei redditi finanziari: ma credo che l’industria dei certificati continuerà a fare bene, anche se la riforma fiscale dovesse essere completata”, dice a We Wealth Jacopo Fiaschini, Head Flow Products Distribution Italia di Vontobel. La stessa Vontobel, molto più di altri emittenti, ha sempre presidiato in modo più esteso il segmento dei certificates benchmark. Se i redditi da capitale saranno unificati in un’unica fattispecie, “non credo che i classici certificati che replicano un indice avranno più ragione di esistere”, ha ammesso Fiaschini, “come Vontobel, infatti, abbiamo già esteso le caratteristiche di questi prodotti con gestioni più attive che, in prospettiva, entreranno in competizione con gli Etf attivi”. Dietro alla promessa di un rendimento aggiuntivo sull’andamento dell’indice, dunque, certificates di questo tipo potrebbero continuare a essere proposti, anche in assenza del vantaggio fiscale.
Il pessimismo sul futuro dei certificates benchmark, in caso di riforma fiscale, è comune a tutti gli emittenti, ma anche a chi sta dall’altra parte del tavolo, come analista. “L’elemento fiscale è molto rilevante per i certificati di tipo ‘long only’, benchmark o simili, mentre è meno decisivo per quelli a cedola o con liquidità”, dichiara a We Wealth Piermattia Menon, analista senior dell’Ufficio Studi Consultique. La proposta di benchmark certificates a gestione attiva, aggiunge, “può avere un po’ più senso perché i certificati non sono obbligati a seguire le regole UCITS e possono spaziare molto di più, rimanendo praticamente liquidi”.
Anche se i certificates che replicano indici dovessero sparire, comunque, va ricordato che oggi rappresentano una nicchia all’interno delle masse attualmente in circolazione: solo lo 0,27% del controvalore circolante dei certificates, nel periodo compreso fra inizio ’23 e fine settembre 2024, appartiene a questa categoria (per un controvalore di 164 milioni di euro, secondo i dati dell’Acepi).
Oltre a una riforma fiscale ritenuta gestibile e che, forse, nemmeno verrà completata, ci sono altre ragioni per le quali, fra gli emittenti di certificates, si respira una certa serenità. E hanno a che fare con il calo dei rendimenti a cui molti investitori si sono abituati e ai quali dovranno presto dire addio.
Facendo un passo indietro, l’aumento dei tassi, che ha riportato le obbligazioni nei radar degli investitori, non ha creato nessun buco nella domanda dei certificates, come qualcuno aveva paventato: anzi, nel 2023 le emissioni hanno raggiunto il record storico a 25.764 milioni. “L’aumento dei tassi non ha colpito i certificati”, racconta a questo giornale Marco Medici, Investment Solutions Distribution, Unicredit, “perché anche le cedole di questi prodotti sono aumentate e il differenziale sui rendimenti dei bond è rimasto intatto, con cedole dei certificates superiori anche al 10%”. Secondo altre voci raccolte a margine del Fee Only Summit, il successo dei certificati durante la fase crescente dei tassi si spiega con la migliorata capacità, in contesti di tassi elevati, di strutturare certificati a capitale protetto con cedole più sostanziose rispetto a quelle di BTP e altri titoli obbligazionari che, per l’investitore italiano, sono il vero termine di paragone.
Nella fase discendente dei tassi, invece, la spinta ai certificati potrebbe arrivare da un fenomeno un po’ più psicologico: il desiderio di mantenere una remunerazione del capitale simile a quella degli ultimi due anni, nonostante i rendimenti siano ormai in calo. In questi anni “gli investitori hanno potuto beneficiare di un rendimento del 4% rimanendo liquidi nel mercato: questo è stato apprezzato, dato che da tempo non si vedevano rendimenti così elevati”, dice Menon, “nei prossimi anni, il cliente potrebbe vedere tassi un po’ più bassi, il che potrebbe causare qualche fastidio, oltre che suscitare il desiderio di preservare una remunerazione del genere”. Di conseguenza, in futuro, il consulente finanziario che volesse soddisfare una richiesta di questo tipo sarà costretto a guardarsi intorno, compreso nel giardino dei certificati – dove l’erba del rendimento è più verde. “Anche se questo scambio”, fra fondi monetari e certificati, “comporta un rischio leggermente superiore, si può tutto sommato tollerare optando per i certificati a capitale totalmente protetto”.