Non è più tempo di puntare esclusivamente sui rendimenti a breve termine. Anche perché la crisi finanziaria ha messo in evidenza che gli azionisti si sono ritrovati a sostenere rischi eccessivi a breve termine derivanti dalle scelte dei dirigenti. Il rischio, insomma, è che la gestione e i risultati di una società in caso di attenzione spasmodica al breve termine non siano ottimali. Il legislatore ha cercato di porre rimedio a questa situazione con la direttiva Ue 2017/828 (Shareholder Rights Directive) che per il 10 giugno 2019 dovrà essere adottata dagli stati membri. L’obiettivo? Principalmente incoraggiare l’impegno a lungo termine degli azionisti nella vita della società, quella che viene chiamata la “voice”, favorendo un dialogo più ampio e trasparente tra investitori ed emittenti.
In Italia il Mef, il ministero dell’economia e della finanza, ha approntato una bozza di decreto legislativo per recepire la direttiva, in consultazione fino alla fine dell’anno. E per il 10 febbraio, ha anticipato il direttore generale del Mef, Alessandro Rivera, intervenendo all’ultima Icg Conference, sarà presentato il testo definitivo del provvedimento da sottoporre all’iter parlamentare. Queste le tematiche principali prese in considerazione dal decreto: l’identificazione degli azionisti, la remunerazione degli amministratori, i proxy advisor e le politiche di impegno (engagement).
Il valore dell’identificazione degli azionisti
La direttiva ha posto un tetto massimo, lo 0,5% di quota azionaria, oltre il quale una società quotata può esercitare il diritto di conoscere l’identità dei suoi soci. Ma non ha stabilito alcuna soglia minima. Il Mef nella sua bozza di decreto legislativo ha fatto proprio il tetto dello 0,5% stabilendo in pratica che a quel livello si debba fermare la conoscibilità dell’identità dei soci da parte di una società. Ma è una scelta che fa discutere. “Personalmente ritengo che sia un peccato che il decreto legislativo fissi un limite di possesso azionario al di sotto del quale non è possibile l’identificazione degli azionisti. Un limite così rigido rischia di mancare l’obiettivo”, commenta Carmine di Noia, commissario Consob e vice-presidente del Comitato Corporate governance dell’Ocse.
“Già oggi il Tuf (testo unico della finanza) non indica percentuali di possesso per l’identificazione degli azionisti previo consenso degli interessati. Non nego che possa esserci il rischio di un utilizzo opportunistico di tali informazioni, ma i vantaggi derivanti dalla conoscenza degli azionisti sono indubbiamente superiori anche in relazione alla corporate governance poiché in questo modo si pongono le basi per la creazione di rapporti di lungo termine. Il modello potrebbe essere perfezionato permettendo all’azionista di scegliere se consentire l’identificazione esclusivamente all’emittente o a terze parti oppure, alternativamente, a tutti o a nessuno”.
Alla base della direttiva vi è la convinzione che sia opportuno trattare i dati personali degli azionisti in modo da permettere alla società di identificare gli azionisti esistenti al fine di comunicare con loro direttamente, nell’ottica di facilitare l’esercizio dei diritti degli azionisti e favorirne l’impegno nella società. È fatto salvo il diritto degli Stati membri che disciplina il trattamento dei dati personali degli azionisti per scopi diversi, come ad esempio la possibilità offerta agli azionisti di collaborare tra di loro o di rivolgere offerte commerciali mirate con agevolazioni riservate agli azionisti, solo per fare qualche esempio.
Investitori istituzionali più attivi? Il ruolo dei proxy advisor
L’esercizio del diritto di voto è un processo complesso e alcuni investitori istituzionali, come i fondi pensione, non hanno mostrato finora un particolare attivismo. La direttiva si muove nella direzione di far crescere l’impegno degli investitori previdenziali per tutelare gli investimenti nel lungo termine con l’obbligo di dotarsi di politiche di voto e di engagement nei confronti delle società partecipate e di metodologie di valutazione dei risultati non finanziari nel lungo periodo, vale a dire anche per ciò che attiene alla governance e all’impatto ambientale e sociale.
I proxy advisor, o consulenti in materia di voto, possono essere di supporto agli investitori analizzando, a titolo professionale e commerciale, le informazioni diffuse dalle società per informare gli investitori in relazione alle decisioni di voto fornendo ricerche, consigli o raccomandazioni connessi all’esercizio dei diritti di voto. Per la prima volta la direttiva europea sottopone a regolamentazione anche questi intermediari e lo schema di decreto del Mef impone ai consulenti di rendere noto con una relazione annuale (di cui la Consob detta con regolamento termini e modalità di pubblicazione) i criteri con cui viene svolta la l’attività nella logica della trasparenza e di assenza di conflitti di interesse.
Engagement sempre più chiaro
Uno dei principali obiettivi della nuova direttiva è quello di assicurare la maggiore trasparenza alle policy di impegno (engagement), cioè alla descrizione di come investitori istituzionali e gestori di attivi monitorino le società partecipate su questioni rilevanti: dalla strategia ai risultati finanziari e non finanziari, dai rischi alla struttura del capitale, dall’impatto sociale e ambientale e il governo societario alla gestione di attuali e potenziali conflitti di interesse in relazione al loro impegno.
Gli investitori istituzionali e i gestori di attivi comunicheranno al pubblico le modalità di attuazione della politica di impegno, su base annua, con una descrizione generale del comportamento di voto e del ricorso ai servizi dei consulenti in materia di voto. Va reso pubblico inoltre in che modo gli elementi principali della strategia di investimento siano coerenti con profilo e durata delle loro passività, soprattutto a lungo termine, e in che modo contribuiscano al rendimento a medio e lungo termine dei loro attivi. Si tratta di prassi che molti gestori già adottano spontaneamente ma con la direttiva diverranno obblighi vincolanti.
La politica di remunerazione degli amministratori
Forse la maggiore novità che direttiva e decreto legislativo introducono sulle policy di retribuzione ai manager delle società quotate attiene allo stile. Quelle relazioni – impongono le nuove regole – debbono essere scritte in modo “chiaro e comprensibile”. Attualmente avviene spesso il contrario e i documenti – di decine se non di centinaia di pagine – risultano astrusi ad un lettore non professionale: non è proprio il latinorum lamentato dal Renzo di Manzoni ma l’infarcitura di termini anglosassoni e una certa prolissità della documentazione non aiutano a districarsi su questi temi.
Le policy retributive vanno sottoposte al voto dei soci almeno ogni tre anni. Che cosa succede se la maggioranza non le approva? La deliberazione in materia di remunerazione non è vincolante – questa è stata la scelta compiuta per l’Italia nella bozza di decreto legislativo – e la società sottoporrà una nuova politica di remunerazione al più tardi nell’assemblea successiva.