Le grandi aziende scappano dal Dragone: ecco la strategia Cina+1

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Diverse multinazionali sembrano aver intrapreso la cosiddetta ‘strategia Cina+1’, volta a spostare parte delle attività produttive dal Dragone a nuovi paesi più vicini (ma comunque convenienti). Emergono tuttavia alcuni dubbi riguardo la scalabilità di tale approccio

“Di tutte le lezioni apprese durante la pandemia, forse la più importante per le società è ora evidente a posteriori: affidarsi a singoli anelli della catena di approvvigionamento globale è stato un errore”. Ne sono convinti gli esperti di Capital Group, chiamati a evidenziare i comportamenti produttivi delle grandi società a livello mondiale, così da allineare gli investitori alle opportunità che potrebbero aprirsi sul lungo periodo. Gli anni della pandemia prima, e delle tensioni geopolitiche poi, hanno infatti posto l’attenzione sulle difficoltà legate alla delocalizzazione delle attività produttive e sui rischi dell’affidarsi a un singolo paese per ricevere le forniture essenziali, energia in primis, ma anche chip per computer e generi alimentari. 

La Cina continuerà a essere la prima base produttiva del mondo?

Tra i luoghi simbolo dell’offshoring vi è la Cina, meta prescelta sin dagli anni Ottanta dalle grandi aziende desiderose di abbattere i costi legati al lavoro degli operai e di poter contare su una manodopera facilmente formabile, se non già formata. Negli ultimi anni, tuttavia, le crescenti tensioni tra il Dragone e gli Stati Uniti, l’emergere di nuove e più interessanti economie e la possibilità di avere accesso a una manodopera dal costo ancora più basso hanno portato alcune grandi aziende a considerare l’eventualità di spostare i propri stabilimenti verso nuovi lidi (e in alcuni casi, a farlo sul serio). Per questo, alcuni hanno avanzato l’ipotesi che la Cina possa in futuro “essere soppiantata come principale base produttiva del mondo”, spiega Winnie Kwan, gestore di portafoglio di Capital Group. Secondo l’esperta, però, si tratterebbe di “una convinzione comunemente errata”. Perché? 

La strategia Cina + 1: ecco le mete preferite

Sebbene l’accorciamento delle catene di approvvigionamento possa essere auspicabile in linea teorica, ritornare al modello di “onshoring” o di “nearshoring”, ovvero produrre localmente o quanto più vicino alla sede principale, può spesso rappresentare un’utopia. In questo contesto, l’approccio che diverse multinazionali sembrano aver intrapreso è la cosiddetta ‘strategia Cina+1’. Tale scelta, spiegano gli esperti di Capital, mira a mantenere le attività produttive già avviate in Cina e a costruire nuovi impianti altrove, al fine di diversificare maggiormente le attività di ciascuna azienda e le sue relative supply chain. Tra le mete preferite, in primis il Sud-est asiatico (50,8%), seguito dal Messico (34,9%), l’India (30,2%) e gli Stati Uniti (22,2%), secondo quanto evidenziato da un’indagine condotta nel 2021 dall’AmCham Shanghai sulle società straniere che operano in Cina. In un sondaggio del 2022 condotto dalla Camera di Commercio dell’Unione Europea in Cina, invece, il 23% delle società occidentali ha riportato di stare considerando lo spostamento dei reparti di operations lontano dal Dragone, mentre il 50% ha ammesso che nel 2021 le attività economiche in Cina sono diventate più ‘politicizzate’ che negli anni precedenti. A guidare le decisioni di rilocalizzazione e diversificazione sembrerebbe essere quindi anche un interessante fattore, ovvero i rapporti politici in essere tra il paese in cui ha sede la società e quello in si cui vorrebbero spostare le attività produttive, fattore che ha portato a battezzare tale azione con il termine “friendshoring”. 



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Attenzione alla scalabilità (e al fattore tempo)

A prescindere dalle volontà delle singole aziende, tuttavia, vi è l’importante considerazione sulla scalabilità della strategia Cina+1. “È possibile aggiungere un nuovo stabilimento in India o Messico, ad esempio, e aumentare la produzione secondo necessità? La manodopera e l’energia elettrica sono sufficienti? È disponibile l’infrastruttura logistica? Il management è in grado di gestire la maggiore complessità?” continua Kwan. “Sono queste le domande su cui mi sto concentrando mentre ricerchiamo tali sviluppi e opportunità di investimento. Non tutte le società riusciranno a farlo nel modo giusto”. Inoltre, non vi è da dimenticare la questione tempo, conclude il gestore. “Potrebbe volerci un decennio prima che le società effettuino una transizione completa. Il processo però è certamente iniziato e credo che sarà uno dei temi di investimento più importanti degli anni 2020”. 

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