Appena si parla d’Italia che funziona, il pensiero corre alle piccole e medie imprese (Pmi), un universo dai confini statistici fluidi in cui si trovano molte delle perle del manifatturiero, capaci d’innovare anche in nicchie impensate e di registrare risultati straordinari sui mercati globali. Per non citare un dato passato inosservato, nel 2017: l’import giapponese dall’Italia ha registrato un +21,7%, di gran lunga il più vigoroso tra i fornitori di manufatti del Sol Levante.
Delizia, ma da decenni anche croce dell’economia italiana. Il mondo delle Pmi simbolizza la tara dell’atonicità della produttività che attanaglia il Paese. È nella coda lunga della distribuzione dimensionale delle imprese che si nascondono gli zombie, aziende incapaci di remunerare adeguatamente il capitale immobilizzato e fonte di molti dei problemi del sistema bancario.
Questo connubio singolare – altrove, anche se le semplificazioni sono per loro natura fallaci, prevalgono o le buone o le cattive aziende – ha molteplici cause di cui si è discusso in migliaia di
articoli e incontri. La lunga traiettoria dell’industrializzazione del nostro Paese, l’eccellente tradizione artigiana, lo stimolo di una domanda finale storicamente esigente, la diffusione dell’im-
prenditorialità hanno prodotto un ecosistema che ha reagito alla Grande Crisi per realizzare una riconversione strategica, mostrando resilienza e accumulando margini di vantaggio rispetto ai loro competitor.
Remano invece contro il familiarismo e l’insufficiente investimento in competenze manageriali, la ritrosia a cedere proprietà e controllo, l’inefficienza del settore dei servizi – oltre alla lunga litania delle deficienze infrastrutturali, istituzionali e di governance del Sistema Nazione – a rendere faticosa e incerta la reazione alle sfide. L’economia italiana vive attualmente una ripresa che, sia
pur contrastata, consente di guardare con occhio propositivo al legame tra questione dimensionale e produttività del sistema, mentre sarebbe nefasto crogiolarsi sugli allori.
Il Rapporto sulla competitività dell’Istat evidenzia come anche tra le Pmi sia in recupero la spesa in macchine, attrezzature e mezzi di trasporto e continuano a crescere gli investimenti immateriali (anche se permane un ritardo significativo con altri grandi paesi dell’Eurozona). È il momento per chiedere a tutti i soggetti di fare la propria parte, anche al sistema bancario.
In un mondo di fintech e intelligenza artificiale, big data e internazionalizzazione, crowdfunding, NPLs e UTPs, l’intermediazione finanziaria è fondamentale per realizzare gli investimenti produttivi, non è uno strumento per soffocare le Pmi. Per il Paese, sarebbe ingenuo riproporre modelli datati di politiche industriali imperniate su credito agevolato e incentivi fiscali di dubbia efficacia.
È auspicabile invece che fioriscano soluzioni di mercato che coniughino l’attività tradizionale di erogazione del credito alle Pmi, valutando il merito in maniera trasparente, con l’orientamento
strategico a sostegno di sviluppo e crescita. E con particolare enfasi su tre dimensioni sulle quali nei prossimi anni si giocherà la partita della competitività globale. La prima chiaramente è quella della digitalizzazione, in cui è proprio l’Istat a certificare un divario italiano che non si colma.
Sicuramente non aiuta le nostre Pmi che la velocità di connessione a Internet sia spesso carente; ma ci sono anche motivi culturali dietro i ritardi nell’adozione di tecnologie ERP (Enterprise Resource Planning), CRM (Customer Relationships Management) e SCM (Supply Chain Management). Una banca competente vicina all’impresa può essere decisiva nel trovare il coraggio per fare il salto verso Industria 4.0. Investire in SCM è indispensabile per partecipare alle catene globali. Anche le Pmi più competitive hanno spesso ritardi ad adeguarsi sul piano patrimoniale, organizzativo e tecnologico alle sfide della globalizzazione. Temi su cui si intersecano geo-politica, interessi nazionali e parametri regolamentari, rispetto ai quali le aziende italiane hanno maggiori difficoltà a far sentire la propria voce senza advocacy autorevole di cui sentono ora il bisogno soprattutto le Pmi.
Terzo tema fondamentale, quello della sostenibilità. Aziende veramente attente alla sostenibilità sociale e ambientale sono per loro natura meno esposte al rischio reputazionale, sempre più pervasivo nell’economia globale. Anche in questo caso, la banca ha credibilità, legittimità e interesse per convincere le Pmi che doing good è funzionale a doing well.
Operatori bancari competitivi potranno contribuire a ridurre la fragilità finanziaria delle Pmi, pur in presenza di misure regolamentari che rendono più complicato il loro finanziamento, e consentire all’Italia di tornare a crescere e creare occupazione.