Mentre sul terreno l’esercito di Israele sta recuperando parte dei territori invasi, sui mercati i beni rifugio hanno mantenuto le posizioni raggiunte, scontando in parte la possibile estensione del conflitto che, però, non appare lo scenario attualmente più probabile. L’oro si è portato su 1.869,50 dollari l’oncia, con un rialzo dello 0,27% (e un massimo di giornata a 1.879,10), mentre i rendimenti dei Buoni del Tesoro Usa, un altro porto sicuro nei momenti di incertezza, hanno visto un calo dei rendimenti da circa 10 punti base martedì, al 4,704%.
Il barile di petrolio Brent ha ceduto lo 0,8% a 87,44 dollari, arrestando quindi la sua spinta al rialzo provocata dall’attacco del gruppo islamista Hamas in Israele sabato scorso, cui è seguita una reazione militare da parte del governo guidato da Benjamin Netanyahu.
“E’ ancora molto presto e la situazione potrebbe evolversi in diversi modi”, ha dichiarato il capo strategist per le materie prime di Ing, Warren Patterson, “per il momento, i mercati petroliferi stanno valutando un premio per il rischio, data l’incertezza. Se le notizie sul coinvolgimento dell’Iran si rivelassero fondate, ciò fornirebbe un’ulteriore spinta ai prezzi, in quanto ci aspetteremmo che gli Stati Uniti applichino più severamente le sanzioni petrolifere contro l’Iran. Inoltre, aumenterebbe ulteriormente le tensioni nella regione”. Per il momento, Israele ha dichiarato di non poter ancora affermare un coinvolgimento dell’Iran nell’attacco di sabato 7 ottobre, anche se questo è stato riferito da alcuni fonti anonime pubblicate dal Wall Street Journal.
Anche i titoli del comparto difesa, che lunedì avevano segnato massicci acquisti, hanno consolidato i guadagni nella seduta di martedì, con rialzi per Leonardo, Thales, Bae Systems e Rheinmetall. Allo stesso tempo, però, i listini azionari sono in generale recupero, probabilmente nell’aspettativa che il conflitto non si allarghi.
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Cosa aspettarsi se il conflitto non si allarga
Se la situazione rimanesse circoscritta a Israele e Hamas, quali potrebbero essere le ripercussioni a lungo termine sui mercati? “L’impatto sui mercati dovrebbe essere limitato finché il conflitto rimane locale e non si diffonde”, hanno affermato gli analisti di Amundi, “è marginalmente positivo per i settori della difesa e del petrolio, ma leggermente negativo per altri, come l’aviazione e i viaggi a lungo raggio, date le complicazioni per i viaggi in Israele e per il sorvolo della regione. Allo stesso tempo”, hanno aggiunto da Amundi, “una volta che il conflitto immediato sarà sotto controllo, Israele potrebbe decidere che è il momento di attaccare le capacità nucleari dell’Iran – con la possibilità che scoppi un conflitto regionale più ampio – e questo potrebbe portare a un aumento dei prezzi del petrolio”.
Per il momento, la prudenza di Israele e degli stessi Stati Uniti sul coinvolgimento diretto dell’Iran nell’attacco riducono le possibilità che il conflitto verso Teheran venga ingaggiato dalle forze israeliane. Il vice consigliere per la sicurezza nazionale Usa, Jon Finer ha reiterato il fatto che, al momento, manchino ancora le prove del coinvolgimento diretto dell’Iran nell’attacco: “Quello che possiamo affermare con chiarezza è che l’Iran è ampiamente complice di questi attacchi, avendo sostenuto Hamas per decenni”, ha detto Finer all’emittente ABC, “ciò che non abbiamo è un’informazione diretta che dimostri il coinvolgimento dell’Iran nell’ordine o nella pianificazione degli attacchi che hanno avuto luogo negli ultimi due giorni. E’ qualcosa che continueremo a esaminare da vicino”. L’Iran da parte sua ha negato ogni coinvolgimento, pur avendo manifestato soddisfazione per il corpo inferto dal gruppo islamista allo Stato di Israele.
Sul fronte della crescita, “si prefigura un maggior rallentamento macro, già evidente in Area euro, che dovrebbe progressivamente coinvolgere anche gli Usa a partire da fine 2023”, ha dichiarato il chief global strategist di Intermonte, Antonio Cesarano. D’altro canto una crescita più lenta potrebbe aumentare anche la domanda di bond, ha aggiunto, “in vista dell’arresto e della potenziale inversione delle politiche monetarie” – che di solito diventano più accomodanti quando l’economia si deteriora. “Si tratta di uno scenario importante anche per immaginare un più agevole processo di rifinanziamento da parte dei governi globali e soprattutto del comparto high yield Usa, in vista di scadenze crescenti nei prossimi trimestri e anni”, ha dichiarato Cesarano. Giovedì, nel primo pomeriggio, è attesa la pubblicazione dei dati relativi all’inflazione statunitense a settembre, dai quali ci si aspettano conferme sul rallentamento dei prezzi “core” – lettura che potrebbe spingere la Fed a rinunciare a un ultimo rialzo dei tassi.