L’investimento sostenibile è sempre più regolamentato. Anche l’uso dei termini, un tempo più libero, sarà ora soggetto a requisiti precisi: chiamare Esg un fondo che investe in azioni di Shell, per esempio, non sarà più possibile. Questo rappresenta una comodità per i risparmiatori, che potranno confrontare prodotti finanziari con caratteristiche simili, ma al contempo diventa un onere sempre più gravoso per i gestori di fondi. Entrambe queste dinamiche sono emerse durante l’ultimo Salone Sri, l’evento annuale dedicato alla finanza sostenibile, svoltosi a Milano il 18 e 19 novembre.
“La complessità della normativa sui prodotti finanziari sostenibili ha creato notevoli disagi lungo tutta la catena del valore e, a mio avviso, non ha necessariamente garantito maggiore trasparenza per i clienti”, ha affermato René Nicolodi, Head of Equities e Deputy Head of Asset Management di Swisscanto, uno degli speaker più critici. “Ridurre la complessità, rivedere le regolamentazioni e riflettere se la comparabilità sia davvero l’obiettivo centrale a cui puntare” sono tra gli auspici espressi da Nicolodi. Secondo lui, l’aumento del reporting sulla sostenibilità da parte delle aziende ha incrementato la trasparenza, ma non sempre ha migliorato la qualità nella selezione di prodotti sostenibili per i clienti.
Alcuni gestori, come Etica Sgr, si trovano oggi a fronteggiare una definizione degli investimenti ammissibili secondo le logiche della transizione verde che contrasta con i principi storici degli operatori specializzati in sostenibilità. Un esempio è rappresentato dal gas naturale, ora ammesso dalla tassonomia verde dell’Ue, una scelta che non rispecchia i criteri tradizionali di esclusione adottati da Etica Sgr, come ha sottolineato il suo presidente, Marco Carlizzi.
Inoltre, la categorizzazione normativa dei fondi sta diventando sempre più dettagliata. La consultazione dello scorso anno sulla Sfdr (Sustainable Finance Disclosure Regulation) ha stabilito che questo regolamento europeo, che disciplina la finanza sostenibile, non deve limitarsi alla trasparenza delle informazioni, ma deve anche combattere attivamente il fenomeno del greenwashing. In altre parole, l’obiettivo è impedire che un fondo si presenti come “verde” senza una reale coerenza nel selezionare aziende sostenibili. A partire dal 21 novembre, entra in vigore “un sistema di categorie che aiuta gli investitori a comprendere meglio i prodotti finanziari disponibili”, con requisiti specifici “per i fondi che utilizzano termini legati all’Esg e alla sostenibilità”, spiega Hortense Bioy, Head of Sustainable Investing Research di Morningstar Sustainalytics.
Con le nuove linee guida dell’Esma, sono stati creati tre gruppi di termini con criteri minimi di conformità. “I criteri più rigorosi si applicano ai fondi che utilizzano termini come ‘Environmental’, ‘Sustainable’, ‘Climate Impact’, ‘Esg’, ‘Green’, ‘Sri’. Questi fondi dovranno escludere investimenti nei combustibili fossili”, spiega Bioy. “I fondi che non intendono adeguarsi a questi criteri dovranno eliminare i riferimenti all’Esg dalla loro denominazione”.
Molti fondi saranno quindi costretti a rimuovere i riferimenti all’Esg dai loro nomi, afferma l’esperta di Morningstar, e alcuni di essi si trasformeranno in “fondi per la transizione”, poiché potranno applicare criteri meno restrittivi.
Esg, declino o battuta d’arresto
Mentre le normative sulla finanza verde diventano sempre più stringenti, i termini Esg, sostenibilità o diversity tendono a ridursi nella comunicazione aziendale. Inoltre, dall’inizio della guerra in Ucraina, si è registrato un clima sfavorevole per le performance azionarie di molti settori tipicamente “verdi”, come le energie rinnovabili. Tuttavia, non tutti vedono in questo un declino della finanza sostenibile: secondo alcuni, essa sta semplicemente diventando lo standard e, per questo, meno distintiva.
“Ritengo che stiamo attraversando una fase di normalizzazione nell’uso della terminologia legata alla sostenibilità, il che rappresenta un aspetto positivo. I concetti di integrazione dei fattori di sostenibilità stanno diventando sempre più comuni e quasi scontati, sia nelle politiche di investimento dei prodotti finanziari, sia nelle pratiche aziendali. Di conseguenza, alcune parole del lessico della sostenibilità inizieranno a essere utilizzate meno frequentemente”, osserva Anna Stagnoli, Esg & Strategic Activism di Eurizon Capital. “La ‘diversity’ potrebbe essere uno di questi termini destinati a diventare meno ricorrenti, essendo ormai parte integrante del discorso quotidiano”.
Anche nella denominazione dei fondi d’investimento, termini come Esg sono in declino da tempo. Nei primi nove mesi dell’anno, come calcolato da Morningstar, i fondi articolo 8 che hanno rimosso l’etichetta Esg (40) sono stati più numerosi rispetto a quelli che l’hanno aggiunta (39): fino all’anno scorso, la tendenza era sempre stata opposta. “Questo fenomeno si spiega con il cambiamento in atto nella denominazione dei fondi, influenzato anche dalle linee guida dell’Esma”, aggiunge Stagnoli. “L’aspetto fondamentale è che il nome deve riflettere in modo esaustivo la politica d’investimento del prodotto: chiamare un fondo Esg deve effettivamente corrispondere a quanto previsto dalla sua politica d’investimento e di sostenibilità”. Anche questa è una strategia adottata dalle autorità di regolamentazione per combattere il greenwashing.