Che cos’è la vera consulenza finanziaria? Nella sostanza, non si esaurisce nel solo perimetro che la normativa europea oggi le affida. Eppure, oggi è definita consulenza la semplice verifica di adeguatezza al profilo di rischio, unita a una raccomandazione di investimento. Con l’ovvia confusione che molti italiani hanno un contratto di consulenza senza saperlo (e senza sapere di pagare per averlo). La domanda su cosa sia davvero la consulenza smette di essere filosofica quando si considera il tema della longevità della popolazione, che pone sfide spostate molto avanti nel tempo che, se unite al semplice rispetto di una dichiarata avversione al rischio, si possono tradurre in un mancato raggiungimento degli obiettivi finanziari. Che sia una pensione comoda, o la trasmissione di un elevato tenore di vita per gli eredi: rispettare un questionario Mifid smarca per il consulente l’onere burocratico, ma non quello più importante di rendere più probabile il successo finanziario del cliente
“Bisogna rivedere i questionari MiFID: oggi assumono che il cliente abbia un profilo di rischio. Ma nella logica goal-based, basata su obiettivi, servono obiettivi con profili di rischio diversi, distribuiti lungo tutto l’arco della vita. Non un vettore, ma una matrice di rischio e orizzonte temporale”, ha dichiarato il professor Paolo Antonio Cucurachi (Università del Salento), nel corso di un evento dedicato alla longevità organizzato da AIPB a Milano.
“I sistemi di adeguatezza spesso vedono il rischio come qualcosa da evitare, mentre dovrebbe essere considerato anche in funzione dell’orizzonte temporale”, ha aggiunto il professore. “La miopia degli investitori rischia di diventare la miopia dei modelli normativi. È necessario incorporare logiche che tengano conto di orizzonte, diversificazione e obiettivi concreti”.
A supporto della necessità di andare oltre la sola etichetta del profilo di rischio, Cucurachi ha presentato alcuni dati che dimostrano l’inefficacia dell’approccio tradizionale alla prova dei mercati. “Abbiamo fatto simulazioni su portafogli reali: nei periodi brevi, il rapporto rischio/rendimento spesso non regge. Per esempio, i mercati emergenti – che hanno un rischio elevato – hanno offerto rendimenti inferiori rispetto a mercati meno rischiosi. Ma su orizzonti lunghi, e usando asset class diversificate, il trade-off rischio/rendimento funziona: a maggior rischio, corrisponde maggiore rendimento”.
Anche per Francesco Adria, Responsabile dell’Ufficio Banche della Divisione Vigilanza Intermediari e Protezione Investitori di Consob, la consulenza deve evolversi. “Deve diventare multi-obiettivo, goal-based, in grado di affrontare rischi nuovi e mitigarne gli effetti. Il contesto in cui ci muoviamo è caratterizzato da complessità profonde. Il fattore demografico – invecchiamento, longevità – è solo uno dei tanti”, ha affermato nel corso dell’evento.
“Tuttavia, anche nel private, secondo la ricerca, prevalgono approcci qualitativi. Manca ancora una vera evoluzione verso modelli quantitativi e orientati agli obiettivi. E questo si riflette anche nella remunerazione del servizio”.
Secondo i dati raccolti da AIPB, il 44% degli intermediari finanziari considera il goal-based investing uno strumento altamente efficace per gestire il rischio di longevità, proprio perché permette un approccio più personalizzato e orientato al lungo termine. Tuttavia, l’adozione concreta è ancora limitata: per il 56% degli intervistati, oggi solo una quota tra l’1% e il 10% degli asset in gestione è effettivamente gestita secondo logiche GBI. E anche se l’80% si aspetta un aumento moderato nei prossimi tre anni, la quasi totalità degli operatori (88%) stima che ci vorranno almeno 3-5 anni prima che il modello GBI diventi davvero diffuso nel private banking.
Per Adria, la consulenza evoluta – quella che affronta anche la pianificazione per obiettivi – è ancora troppo costosa per essere accessibile a clienti giovani, che non rientrano nei canoni del private banking ma che avrebbero già oggi esigenze di pianificazione. “La consulenza deve diventare più industrializzata, meno basata sulla discrezionalità delle reti”, ha sottolineato. “Servono processi standardizzati e documentabili, anche per dimostrare che si è operato davvero nell’interesse del cliente”.
Cambiare i modelli di pagamento – come aveva tentato di proporre la Commissione europea con la Retail Investment Strategy – sarebbe solo una parte della sfida. “Il pagamento diretto da parte del cliente riduce alcuni conflitti di interesse”, ha osservato Adria, “ma non li elimina del tutto: per esempio, se il consulente opera all’interno di un gruppo, potrebbe comunque privilegiare prodotti interni”.
Al contrario, “il servizio deve diventare sempre più personalizzato, olistico, capace di coprire l’intero patrimonio del cliente. In futuro, strumenti come la PSD2 e il progetto FIDA potrebbero unificare i dati del cliente in un unico contenitore, facilitando una gestione realmente integrata”.
I bisogni dei clienti private, alla luce della longevità, esistono, così come i prodotti. “L’81% dei clienti private pensa spesso al futuro. Tuttavia, solo il 23% è davvero preoccupato della prospettiva di vivere più a lungo, e appena l’1% lo è in modo marcato. Il 60% non mostra alcuna preoccupazione. In sostanza, il tema della longevità esiste, ma non è ancora percepito come prioritario”, ha dichiarato il presidente di AIPB, Andrea Ragaini, citando i dati raccolti dall’associazione.
“Solo l’11% dei clienti ritiene che il proprio patrimonio sia sufficiente per affrontare il futuro. Le polizze vita sono presenti nel portafoglio di circa il 20% dei clienti, ma i prodotti legati alla salute sono ancora largamente assenti”, ha aggiunto. “Un altro tema cruciale è l’eccesso di liquidità: in Italia, il 40% della raccolta è ferma sui conti correnti. Nel private banking abbiamo ridotto questa quota al 15%, ma tra i clienti non private si supera il 50%. Trasformare il rischio longevità in opportunità significa anche liberare risorse oggi improduttive”.
Passare da una pianificazione per asset, basata su una semplice verifica di adeguatezza, a un vero piano finanziario per obiettivi, nella pratica, costa molto più lavoro. E forse, solo un chiaro incentivo strutturale può portare davvero questo approccio nella prassi più comune.
Cosa significa, concretamente, fare goal-based investing?
Ciò che conta non è solo il profilo di rischio generale, ma la probabilità che ogni singolo obiettivo venga effettivamente raggiunto, tenendo conto delle priorità soggettive di ciascun cliente. Il rischio, quindi, non è più solo la volatilità del portafoglio, ma anche il rischio di non avere i soldi quando l’obiettivo si presenta – che sia comprare casa, pagare l’università ai figli o integrare la pensione.
Non a caso, il 67% degli intermediari intervistati da AIPB afferma di preferire un modello GBI che preveda portafogli specifici per ogni obiettivo, piuttosto che un unico portafoglio aggregato. Una scelta che riflette la volontà di aumentare la trasparenza, la coerenza e la misurabilità dei risultati.
Con questo approccio, non si può ragionare solo in termini di asset class (azioni, obbligazioni, ecc.): bisogna pensare in termini di prodotti reali, con le loro caratteristiche specifiche. Lo ha spiegato Mauro Carcano, Partner e Head of Wealth and Asset Management Regulation di Prometeia, nell’intervento conclusivo dell’evento. “È necessario considerare anche le strategie incorporate nei prodotti stessi, gli aspetti attuariali e i flussi di cassa attesi nel tempo”.
E serve molta più manutenzione. Trattandosi di obiettivi che evolvono, questo tipo di approccio richiede una revisione periodica del piano, per verificare che resti coerente con la vita e le esigenze del cliente, ha concluso Carcano.