La volontà di effettuare l’investimento si desume in concreto ed è sottratta a regole di invalidità meramente formalistiche
Il consulente non è responsabile dell’investimento quando il cliente è in possesso di un grado di esperienza tale da essere a conoscenza della rischiosità dell’operazione
Tra investitore e consulente esiste un rapporto di intima complicità, basato, almeno, su due fattori: fiducia, da una parte, responsabilità, dall’altra.
Per un verso, infatti, il cliente ripone nei confronti del proprio consulente pieno affidamento circa le prospettive di investimento proposte. Per un altro, lato consulente, vi è un approccio orientato alla massima responsabilità: questi prenderà in carico gli interessi del cliente secondo, tra gli altri, criteri di correttezza, accuratezza e diligenza.
E invero, gli equilibri che caratterizzano il rapporto cliente-consulente possono essere alterati da numerose circostanze impreviste: si pensi al caso di un investimento rivelatosi infruttuoso per circostanze, anche indirettamente, riconducibili al consulente. Una siffatta circostanza può portare a detrimento la complicità tra le parti, e spingere l’investitore a citare in giudizio il proprio consulente.
Ma quando, e fino a che punto, il consulente può effettivamente essere considerato responsabile nei confronti del cliente? Si tratta, certamente, di una questione complessa che per ciò stesso non conosce risposta univoca. Tuttavia, vi sono dei casi in cui, alla luce di alcune circostanze, il consulente non può considerarsi come responsabile degli effetti avversi scaturiti da un investimento gestito per conto di un cliente.
Sul punto, risulta interessante l’esito di una recente sentenza emessa dal Tribunale di Milano (sentenza n. 5286/2022, pubblicata il 14 giugno 2022), con cui il giudice di merito è stato chiamato a pronunciarsi sulla validità e legittimità di una serie di operazioni di investimento in titoli Etc, svolte in forza di un contratto di prestazione di servizi di investimento (associato ad un contratto di conto corrente), concluso tra un cliente (persona fisica) e un ente bancario.
La pronuncia vista da vicino
La prospettiva del cliente
Come è dato leggere nella parte “in fatto” della pronuncia appena citata, a seguito della stipula di due contratti di prestazione di servizi di investimento (e servizi aggiuntivi) associati ad un contratto di conto corrente, un cliente (nel caso di specie, attore) avvalendosi delle raccomandazioni e delle proposte ricevute a titolo di consulenza dalla propria banca (in giudizio, convenuta), conferiva a quest’ultima l’incarico di acquistare strumenti finanziari (relativi al settore petrolifero).
Ebbene, a seguito di alcune vicende legate alla (in)stabilità dei titoli oggetto dell’operazione, l’investimento gestito dal consulente per conto del cliente si rivelava sfavorevole.
Più in particolare, l’attore adiva in giudizio l’ente bancario sostenendo che nell’ambito del rapporto di consulenza questo, con riguardo all’acquisto di detti titoli, avrebbe:
- mancato di illustrare esaustivamente le caratteristiche del prodotto proposto
- mancato di illustrare esaurientemente la complessità dell’operazione raccomandata
- mancato di evidenziare che, a causa della pandemia, vi fosse il rischio di andare incontro ad un calo del prezzo dei titoli proposti
- mancato di evidenziare la possibilità che (all’emergere di certe circostanze, poi determinatesi) l’investimento fosse soggetto a riscatto forzoso
- mancato di agire in forza di un ordine scritto.
Per queste ragioni l’attore chiedeva al tribunale di dichiarare l’inadempimento del consulente, dunque la risoluzione dei contratti di prestazione di servizi di investimento e degli ordini di acquisto, e in forza di ciò condannare l’ente al pagamento di una certa somma di denaro.
La prospettiva del consulente
Come emerge dalla lettura della pronuncia in esame, alla luce della documentazione fornita dall’ente bancario (convenuto in giudizio), il cliente – che pure, tra le altre cose, lamentava di non aver ricevuto le dovute informazioni – in passato era già stato coinvolto in investimenti di questo genere, avendo lo stesso disposto operazioni (che avevano avuto esito positivo) sui medesimi titoli (Etc) oggetto del successivo investimento contestato.
Ad avviso del consulente, il cliente, alla luce dell’esperienza pregressa, pur in assenza di una laurea ad indirizzo economico giuridico, doveva essere considerato quale investitore esperto. In buona sostanza, ad avviso della banca, il cliente, in quanto avvezzo ad operazioni di questo tipo, alla luce dei precedenti investimenti, non poteva considerarsi sprovvisto di quel (anche minimo) patrimonio informativo sufficiente per dargli contezza della rischiosità dell’operazione.
Ma non è tutto. Secondo la versione della banca, il cliente:
- mediante ordine telefonico esplicitamente avrebbe impartito al consulente di procedere all’operazione
- riceveva dal consulente, mediante contatto telefonico e messaggi WhatsApp, numerosi aggiornamenti sulle quotazioni del titolo oggetto di investimento e sulla percentuale di guadagno dello stesso
- avvedutosi della non adeguatezza dell’operazione sotto il profilo della concentrazione dello strumento finanziario rispetto al proprio portafoglio, ben avrebbe potuto chiedere di revocare l’ordine.
La decisione di merito
Ad avviso del giudice di merito, alla luce della documentazione fornita, il consulente avrebbe posto in essere, non in senso meramente formale, ma anche in senso sostanziale, tutte le tutele possibili a favore del cliente; inoltre, a differenza di quanto sostenuto dal cliente, non assumerebbe rilievo il fatto che gli ordini di investimento fossero (almeno) in un primo momento stati impartiti per telefono, stante il fatto che sarebbe emersa in modo indiscutibile la volontà del cliente di effettuare detti investimenti. In buona sostanza, il Tribunale ha affermato (o meglio confermato) che nel nostro ordinamento vige il principio di libertà di forma per il conferimento degli ordini.
Inoltre, ad avviso dei giudici:
- non assume rilevanza ai fini della validità dell’investimento che questo sia stato proposto dal cliente o dal consulente
- la volontà di effettuare l’investimento si desume in concreto ed è sottratta a regole di invalidità meramente formalistiche.
Ma non è tutto. Secondo il Tribunale di Milano, tenuto conto:
- dell’art. 40 Reg. Consob 16190/2007, a mente del quale gli intermediari valutano che l’operazione consigliata sia conforme alle informazioni ricevute dal cliente, che corrisponda agli obiettivi di investimento del cliente, che sia adeguata in termini di rischio alla capacità finanziarie del cliente
- dell’art. 42 Reg. Consob 16190/2007, a mente del quale, nella prestazione dei servizi di investimento (diversi dalla consulenza in materia di investimenti e dalla gestione di portafogli) gli intermediari verificano che il cliente abbia il livello di esperienza e conoscenza necessario per comprendere i rischi che l’investimento comporta
si deve escludere che il cliente fosse privo della capacità di verificare in concreto la rischiosità dell’operazione e la conseguente possibile perdita del capitale. Il cliente, infatti, pur privo di competenze giuridiche o finanziarie, come dimostrato in corso di causa, in passato aveva già svolto operazioni del medesimo tenore e, conseguentemente, era già avveduto della intrinseca rischiosità di operazioni di questo genere.
Conclusione
Come emerge dalla lettura della parte motiva della sentenza, nel punto in cui si riconosce come vittorioso l’ente bancario, seguito dallo Studio Zitiello, nella persona dell’avv. Musco Carbonaro Benedetta, nessuna responsabilità a carico del consulente può essere rilevata, posto che, tra le altre cose, nel caso di specie, l’investitore è autore sostanziale e non solo formale dell’operazione, e che alla luce dei precedenti investimenti svolti sui medesimi titoli, il cliente era in possesso di un grado di esperienza tale da essere a conoscenza della rischiosità dell’operazione.
Come sottolinea l’avv. Musco Carbonaro, che ha seguito il caso, “si tratta di un precedente significativo, che analizza compiutamente le differenze tra la prestazione dei servizi in regime di adeguatezza o di appropriatezza e che affronta la questione, spesso sottovalutata, della rilevanza effettiva della precedente operatività del cliente sia ai fini del suo profilo di rischio, che nella valutazione della legittimità in concreto della condotta dell’intermediario nel rapporto con una tipologia di clientela che abbia dimostrato nei fatti la propria reale esperienza e conoscenza in materia di investimenti”.