Le Central Bank Digital Currency potrebbero essere lo strumento in mano alle autorità monetarie, minacciate dalla diffusione di strumenti di pagamento privati, per riacquisire spazio di controllo e vigilanza sull’emissione di moneta e sulle transazioni di pagamento
L’ipotesi di fornitura di conti di deposito direttamente dalle banche centrali potrebbe togliere alle banche commerciali la loro fonte principale di raccolta
Una sfida tra Paesi
Il think thank statunitense Atlantic Council ha intrecciato i dati più recenti e ha rilevato che 81 Paesi – corrispondenti a più del 90 per cento del PIL globale – stanno lavorando allo sviluppo di una propria valuta digitale, mentre alcune banche centrali più piccole le hanno già emesse: le Bahamas sono state il primo Paese ad aver introdotto il sand dollar, seguite a ruota da altri Stati caraibici e dalla Cambogia.
I progetti in fase di sviluppo più avanzata vedono protagoniste Cina, Corea del Sud, Thailandia, Singapore, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e altre isole dei Caraibi. Mentre in Europa sono già a buon punto Svezia, Ucraina e Lituania. A sua volta, la Banca centrale europea ha iniziato a parlare di debutto dell’euro digitale entro i prossimi cinque anni.
Pochi mesi invece potrebbero mancare perché la Banca centrale cinese diventi la prima, tra i grandi Paesi del mondo, a emettere la sua valuta digitale in occasione delle Olimpiadi invernali di Pechino 2022. Lo studio è in fase di sperimentazione e le banche pubbliche hanno già distribuito 200 renminbi digitali – l’equivalente di 30 dollari – a mezzo milione di persone in alcune città pilota.
L’utilizzo diffuso di sistemi di pagamento privati come Alipay ha preoccupato gli alti funzionari cinesi e innescato il processo per arrivare alla rapida diffusione del renminbi digitale. La Banca centrale cinese dovrebbe così rafforzare il suo potere di controllo e indirizzo delle nuove politiche monetarie, minacciate dalle nuove forme di pagamento digitali che nel Paese del dragone hanno ampiamente sostituito il contante.
Questa tendenza trainata dalla crescita dell’e-commerce, anche nel resto del mondo, ha affidato un ruolo centrale ai provider privati, ancor più se questi fornitori sono i colossi della tecnologia che con le loro monete digitali potrebbero raggiungere una larga scala transnazionale, sfruttando il potenziale della rete. Ipotesi poco gradita alle banche centrali, intente a mantenere il controllo diretto e la vigilanza sull’emissione di moneta e sulle transazioni di pagamento.
Preoccupazioni e rischi
Per arginare il rischio, alcuni analisti propendono per fissare un tetto massimo alle valute digitali che i correntisti potrebbero depositare presso le banche centrali. Una cifra che si aggirerebbe, nel caso dell’Eurozona, intorno ai 3mila euro, pari alla quantità pro capite di banconote attualmente in circolazione nell’area euro, e che lascerebbe alle banche commerciali uno spazio di manovra sufficiente.
Intanto, in attesa che i progetti delle grandi banche centrali prendano forma, rimangono alcuni nodi da sciogliere. Uno di questi ruota attorno alla privacy: le criptovalute tutelano almeno uno pseudo-anonimato in ogni operazione effettuata. Lo stesso livello di riservatezza non potrebbe essere garantito dalle autorità monetarie, che difficilmente accetterebbero di non poter verificare il tipo di transazioni realizzate, anche per evitare il rischio di utilizzo illegale delle valute, a partire dal riciclaggio di denaro. La risposta sarà trovare un punto di equilibrio tra anonimato e sicurezza. Ma fino a che punto i normali cittadini sarebbero disposti a subire una potenziale forma di controllo? Le banche centrali paradossalmente diventerebbero depositarie di dati che farebbero gola persino ai colossi della tecnologia.