Finint, dopo una prima affermazione sul panorama italiano con l’investment banking, ha intrapreso un percorso di sviluppo “all’inverso” nel mondo della consulenza finanziaria, acquisendo una rete di private banking per democratizzare l’accesso agli investimenti alternativi. Pur con numeri più piccoli rispetto alle reti, Finint Private Bank, sta aumentando le sue masse a un ritmo superiore al 10% annuo, ha raccontato il direttore finanziario Mauro Sbroggiò, intervenuto al Wealth Management Summit. Fra i tratti distintivi dell’offerta Finint i mercati privati acquisiscono un ruolo di primo piano, con l’obiettivo di creare valore sia per i risparmiatori che per le imprese non quotate.
Come sta evolvendo il settore della consulenza finanziaria?
Il passaggio dalla consulenza finanziaria tradizionale al futuro del wealth management passa sicuramente attraverso una consulenza che abbraccia tutti i bisogni, non solo gli investimenti finanziari. Piaccia o no, però, l’investimento finanziario rimane una parte core che interessa soprattutto gli stessi clienti. La leva strategica più importante per far funzionare bene questa componente è soprattutto una questione di ampiezza e profondità dell’offerta.
Qual è stato il vostro percorso nel private banking?
Siamo veramente fra gli ultimi arrivati perché noi abbiamo acquisito una rete di private banking solo un paio d’anni fa: abbiamo comprato la vecchia Banca Consulia. Come Finint, abbiamo fatto un percorso inverso rispetto al percorso tradizionale della maggior parte degli operatori. Noi nasciamo come strutturatori di prodotti di investment banking, siamo attivi, come sapete, nel mondo della cartolarizzazione – l’abbiamo inventata noi in Italia. Nel mondo dell’asset management siamo stati fra i primi fondatori di una Sgr alternativa e quindi attiva su prodotti illiquidi.
Come si è sviluppata la vostra strategia nel tempo?
Abbiamo ottenuto la licenza bancaria solo sei o sette anni fa e poi abbiamo acquistato una rete, quindi ci siamo arrivati con un percorso un po’ a rovescio. È una strategia che ci piace dire che sta funzionando, nel senso che noi abbiamo cercato di portare una ventata di innovazione di prodotto sul mercato senza avere una rete di distribuzione. Ci siamo dapprima rivolti al mondo degli istituzionali e poi abbiamo fatto questa scelta di acquisire una rete con 190 colleghi, financial advisor e banker, per cercare di seguire anche quello che è stato un trend del regolatore: la democratizzazione del risparmio gestito, anche quando si parla di attivi illiquidi e di asset alternativi. Abbiamo cercato di dare un’offerta la più ampia possibile, utilizzando la metafora della cassetta degli attrezzi. Trovo che i miei colleghi del private banking siano degli artigiani del risparmio individuale, e quindi propongono soluzioni alla propria clientela. A noi è piaciuta l’idea di riempire la cassetta degli attrezzi di questi artigiani nel modo più articolato, alternativo e innovativo possibile.
Qualche numero sui risultati?
La Private Bank negli ultimi 18 mesi è cresciuta all’incirca di un miliardo di euro di masse, passando da tre a quattro miliardi. Sono ancora numeri piccoli, ma sono crescite importanti. Quest’anno sta crescendo a un ritmo del 12% contro l’1-3-4% del mercato.”
Quali sono le sfide principali che vedete per il futuro?
Se fossi un governante italiano oggi, mi sveglierei la mattina con tre incubi reali: il debito, la crescita e la demografia. Su questi temi, soprattutto sulla crescita e sulla demografia, la nostra industria può fare molto per la crescita di questo paese e credo che sia anche questo uno dei nostri compiti.
Quale ruolo giocano i private market nella vostra strategia?
Questa è forse una delle aree più interessanti dove si riesce a creare valore per i nostri risparmiatori e per le nostre imprese. Quando si parla di private market si parla essenzialmente di imprese non quotate, quindi di emissione di strumenti di imprese non quotate. In questo ambito c’è un processo di creazione di valore per l’impresa molto interessante e va dal momento del primo approccio con l’imprenditore (quando gli chiedi qual è il suo piano industriale e non te lo sa dire perché i nostri imprenditori sono fatti per lavorare tanto, produrre tanto e pianificare poco) fino a quando lo accompagni in un percorso che può riguardare un investimento in un prodotto di debito piuttosto che di equity.
Quali risultati avete osservato nel tempo con le aziende che supportate?
Noi vediamo delle imprese, anche semplicemente sui prodotti di debito più basilari – credetemi – che sono a fine del primo ciclo di emissione, quindi i primi 5-7 anni, e quando facciamo i conti vediamo come sono cresciute. Non solo sono cresciute in termini di performance, ma sono cresciute in termini di costo del debito e costo dell’equity. Vediamo l’imprenditore che ha fatto un percorso dove noi abbiamo creato valore per i nostri risparmiatori in maniera significativa e, a proposito di crescita di cui parlavamo prima, abbiamo creato valore per le nostre aziende target. Queste sono fasi particolarmente stimolanti e interessanti per il nostro lavoro.
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