Politiche climatiche: 25 aziende capaci di influenzarle negativamente

5.11.2021
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InfluenceMap ha identificato 25 aziende e 25 associazioni industriali in grado di influenzare negativamente le politiche climatiche a livello globale. Ecco quali
La top5 risulta dominata dal settore dell’energia e delle utility, con ExxonMobil (con un Climate policy footprint pari a -66), Chevron (-65), Toyota Motor (-53), Southern Company (-51) e Sempra Energy (-45)
Toyota Motor ha messo in campo una campagna contro le normative proposte a livello globale per eliminare gradualmente i motori a combustione interna a favore dei veicoli elettrici, ma rientrano nella lista anche Bmw, Daimler e Hyundai
L'influenza di un'azienda su politiche e regolamenti, secondo un nuovo studio di InfluenceMap, può avere un impatto molto più incisivo sui cambiamenti climatici rispetto alle emissioni fisiche legate alle sue operazioni, ai suoi fornitori e ai suoi prodotti. Si parla di quello che viene definito “Scope 4” e che si affianca alle emissioni di Scope 1 (derivanti da fonti di proprietà o controllate dalle imprese in oggetto), Scope 2 (connesse con l'energia acquistata dall'impresa) e Scope 3 (relative per esempio alla mobilità dei dipendenti e alla catena di fornitura). Il think thank indipendente, sulla base di questi criteri, ha realizzato una classifica sulle 50 aziende e associazioni industriali più influenti in grado di bloccare le politiche climatiche a livello globale. A partire dalle compagnie petrolifere statunitensi.
Partiamo dall'approccio metodologico. Come precisato nel rapporto, società più grandi godono di una leva maggiore rispetto alle società più piccole. La dimensione economica, di conseguenza, viene utilizzata per misurare il potere di influenzare le politiche. Per calcolarla, quattro parametri finanziari (entrate totali, profitti, capitalizzazione di mercato e beni posseduti) “vengono fusi in una classifica simile a quella incapsulata dall'elenco annuale Forbes Global 2000 sulle società pubbliche”, spiegano i ricercatori. Il “Climate policy footprint” (che unisce Scope 1, 2, 3 e 4) oscilla tra -100 (influenzare fortemente e negativamente la politica climatica) e +100 (influenzarla positivamente) e “consente agli investitori e agli altri stakeholder di concentrare gli sforzi sulle poche aziende che hanno il maggior impatto assoluto a livello globale”, osservano.
La top5 risulta dunque dominata dal settore dell'energia e delle utility, con ExxonMobil (con un Climate policy footprint pari a -66), Chevron (-65), Toyota Motor (-53), Southern Company (-51) e Sempra Energy (-45). Quattro hanno sede negli Stati Uniti e una (Toyota Motor) in Giappone. In generale, come anticipato, le compagnie petrolifere statunitensi fanno da traino con ConocoPhillips al settimo posto, Phillips 66 (12°), Valero Energy (13°) e Occidental Petroleum (22°), a dimostrazione di “un'intensa resistenza del settore agli sforzi dell'amministrazione Biden per allontanare l'economia del Paese dai combustibili fossili”, si legge nel rapporto.
Quanto al settore automobilistico, la sopracitata Toyota Motor ha messo in campo una campagna contro le normative proposte a livello globale per eliminare gradualmente i motori a combustione interna a favore dei veicoli elettrici, ma rientrano nella lista anche Bmw (al 18° posto), Daimler (24°) e Hyundai (25°). Glencore (8°) è una delle poche aziende della top25 la cui Carbon policy footprint risulta legata prevalentemente alla difesa a favore del carbone termico. “L'analisi probabilmente riflette uno spostamento dell'influenza dal carbone al gas, con un aumento delle imprese che concentrano sempre più sul gas naturale le loro attività di lobbying”, precisano i ricercatori. La classifica relativa alle 25 associazioni industriali che maggiormente influenzano negativamente le politiche climatiche vanta infine nelle prime cinque posizioni l'American petroleum institute, l'American fuel & petrochemical manufacturers, la Us Chamber of commerce, la National mining association e BusinessEurope. Complessivamente, 13 delle 25 associazioni considerate rappresentano direttamente i settori dell'energia fossile.
“Una transizione allineata agli Accordi di Parigi verso un futuro di energia pulita rimarrà estremamente impegnativa fino a quando i paesi non intraprenderanno azioni significative per affrontare l'ostruzionismo lobbistico degli interessi acquisiti dai settori della catena del valore dei combustibili fossili”, commenta Edward Collins, direttore di InfluenceMap. “Il copione aziendale per frenare la politica climatica ha fatto molta strada dal negazionismo della scienza, ma è altrettanto dannoso. Il mondo sta iniziando a rendersi conto dell'impatto che le aziende stanno avendo attraverso la loro influenza politica. È giunto il momento che le principali società impegnate in tali pratiche, insieme alle associazioni di settore che le supportano, siano ritenute responsabili di tutto questo”.
Ricordiamo infine che quest'analisi segue un altro rapporto pubblicato nel mese di ottobre sulle aziende che influenzano positivamente le politiche climatiche allineate agli accordi del 2015. Tra queste, si segnalano Unilever, Nestlé, Ikea e Tesla, ma anche alcune attive nei servizi di pubblica utilità focalizzati sulle energie rinnovabili come Iberdrola, Enel, Orsted e Edison International. Il settore delle utility risulta essere anche in questo caso il più attivo, specie in Europa. Al contrario, scarseggiano aziende statunitensi, giapponesi, australiane e canadesi. Secondo InfluenceMap, “il sostegno attivo del settore aziendale europeo” ha dunque “probabilmente amplificato la leadership dell'Unione europea sul clima sin dall'Accordo di Parigi” mentre “l'attività insufficiente o ostruttiva del settore aziendale e dei suoi gruppi industriali frenava le politiche climatiche in gran parte del resto del mondo”.
Quanto al settore automobilistico, la sopracitata Toyota Motor ha messo in campo una campagna contro le normative proposte a livello globale per eliminare gradualmente i motori a combustione interna a favore dei veicoli elettrici, ma rientrano nella lista anche Bmw (al 18° posto), Daimler (24°) e Hyundai (25°). Glencore (8°) è una delle poche aziende della top25 la cui Carbon policy footprint risulta legata prevalentemente alla difesa a favore del carbone termico. “L'analisi probabilmente riflette uno spostamento dell'influenza dal carbone al gas, con un aumento delle imprese che concentrano sempre più sul gas naturale le loro attività di lobbying”, precisano i ricercatori. La classifica relativa alle 25 associazioni industriali che maggiormente influenzano negativamente le politiche climatiche vanta infine nelle prime cinque posizioni l'American petroleum institute, l'American fuel & petrochemical manufacturers, la Us Chamber of commerce, la National mining association e BusinessEurope. Complessivamente, 13 delle 25 associazioni considerate rappresentano direttamente i settori dell'energia fossile.
“Una transizione allineata agli Accordi di Parigi verso un futuro di energia pulita rimarrà estremamente impegnativa fino a quando i paesi non intraprenderanno azioni significative per affrontare l'ostruzionismo lobbistico degli interessi acquisiti dai settori della catena del valore dei combustibili fossili”, commenta Edward Collins, direttore di InfluenceMap. “Il copione aziendale per frenare la politica climatica ha fatto molta strada dal negazionismo della scienza, ma è altrettanto dannoso. Il mondo sta iniziando a rendersi conto dell'impatto che le aziende stanno avendo attraverso la loro influenza politica. È giunto il momento che le principali società impegnate in tali pratiche, insieme alle associazioni di settore che le supportano, siano ritenute responsabili di tutto questo”.
Ricordiamo infine che quest'analisi segue un altro rapporto pubblicato nel mese di ottobre sulle aziende che influenzano positivamente le politiche climatiche allineate agli accordi del 2015. Tra queste, si segnalano Unilever, Nestlé, Ikea e Tesla, ma anche alcune attive nei servizi di pubblica utilità focalizzati sulle energie rinnovabili come Iberdrola, Enel, Orsted e Edison International. Il settore delle utility risulta essere anche in questo caso il più attivo, specie in Europa. Al contrario, scarseggiano aziende statunitensi, giapponesi, australiane e canadesi. Secondo InfluenceMap, “il sostegno attivo del settore aziendale europeo” ha dunque “probabilmente amplificato la leadership dell'Unione europea sul clima sin dall'Accordo di Parigi” mentre “l'attività insufficiente o ostruttiva del settore aziendale e dei suoi gruppi industriali frenava le politiche climatiche in gran parte del resto del mondo”.