Tra le motivazioni alla base della crescita degli investimenti sostenibili tra gli operatori previdenziali, si cita la possibilità di coniugare l’impatto socio-ambientale con un congruo ritorno finanziario
Oltre la metà dei 68 piani previdenziali attivi sul fronte della sostenibilità estende alla quasi totalità del patrimonio in gestione (una quota compresa tra il 75% e il 100%) tale tipologia di investimenti
Continua la caccia all’Esg degli operatori previdenziali. Stando una nuova ricerca condotta dal Forum per la finanza sostenibile in collaborazione con Mefop e MondoIntitutional e presentata in occasione dell’XI edizione delle Settimane Sri, il 76% degli attori italiani (casse di previdenza, fondi pensione aperti, fondi pensione negoziali, fondi pensione preesistenti istituiti prima della riforma del 1993 e piani individuali pensionistici) dichiara di includere criteri di sostenibilità nelle proprie decisioni d’investimento. Una quota superiore di 36 punti percentuali rispetto al 2015 e che si traduce nelle parole di Francesco Bicciato, direttore generale del forum, in quella che sembra essere una “direzione ormai segnata”. Ma che lascia spazio a ulteriori passi in avanti, tra chi ha già avviato valutazioni in merito e chi lamenta la mancanza di dati affidabili e standardizzati tra gli elementi che ne ostacolano il cammino.
“Gli operatori previdenziali italiani mostrano oggi un grosso interesse rispetto ai criteri di sostenibilità”, spiega Bicciato in apertura dell’evento di presentazione dello studio. “Si tratta di un movimento che non arretra, ma progredisce”. Tra le motivazioni alla base della crescita degli investimenti sostenibili, interviene Anna Crocetti (research officer and membership management del Forum per la finanza sostenibile), si citano la possibilità di coniugare l’impatto socio-ambientale con un congruo ritorno finanziario ma anche l’impulso proveniente dal contesto normativo, una gestione più efficace dei rischi finanziari e il dovere fiduciario nei confronti di aderenti e beneficiari. Sono invece 14 i piani previdenziali che hanno avviato valutazioni in merito all’inclusione dei criteri Esg nelle decisioni d’investimento, sette dei quali ritengono che tale processo potrebbe concludersi entro un anno. Restano altri sette piani che non hanno ancora avviato valutazioni in merito, citando tra le principali criticità la mancanza di dati affidabili e standardizzati e di certificazioni che tutelino contro il rischio di greenwashing. “Nessun ente ha motivato però la non inclusione con l’eventuale rischiosità o scarsa redditività degli investimenti sostenibili”, precisa Crocetti.
Strategie Sri: al top esclusioni (27%) e best in class (18%)
In questo contesto, oltre la metà dei 68 piani previdenziali attivi sul fronte della sostenibilità estende alla quasi totalità del patrimonio in gestione (una quota compresa tra il 75% e il 100%) tale tipologia di investimenti. Si tratta principalmente di fondi pensione negoziali, fondi pensione aperti e fondi pensione preesistenti. “Per quanto riguarda le strategie Sri adottate, nelle classi di attivo liquide (equity, corporate bond e titoli di Stato) le più diffuse si confermano esclusioni (27%) e best in class (18%)”, spiega Arianna Lovera, senior programme officer del Forum per la finanza sostenibile. “Tra i settori esclusi si citano armi, tabacco, scommesse, gioco d’azzardo e pornografia”. L’indagine di quest’anno ha incluso anche un focus sull’engagement, attuato da 30 rispondenti; 21 hanno definito una politica di impegno nei confronti degli emittenti inseriti in portafoglio e 6 hanno in programma di farlo. Salgono inoltre da 17 (nel 2021) a 29 (nel 2022) gli operatori previdenziali che misurano l’impronta di carbonio del portafoglio d’investimento “e i risultati della misurazione sono utilizzati oltre che per attività di benchmarking e identificazione dei rischi climatici anche per definire le azioni necessarie a ridurre le emissioni (passa da 4 a 10 il numero di piani che li usa a questo scopo)”, precisa Lovera. Solo un piano afferma invece di includere la neutralità climatica nelle scelte d’investimento, anche se 26 puntano a farlo in futuro.
Boeri: “Necessaria una riflessione sui dati Esg”
“La linea è ormai tracciata”, conferma Luigi Ballanti, direttore generale di Mefop, ricalcando le parole di Bicciato. “È un tema che sembra ormai essere stato efficacemente interiorizzato nel processo di governance degli investitori istituzionali previdenziali. Quindi essere qui per noi è un po’ una grande soddisfazione oltre che un dovere professionale. Ma c’è ancora molto da fare”. Secondo Tito Boeri, professore ordinario di economia dell’Università Bocconi, gli investitori istituzionali possono giocare un ruolo rilevante sul tema del cambiamento climatico e della sostenibilità, ma sul tema della misurazione restano per esempio “notevoli ritardi e disomogeneità” che disorientano gli investitori stessi. “Credo che una riflessione molto attenta, anche su questo, sia doverosa”, avverte Boeri.
Sostenibilità e portafogli assicurativi: a che punto siamo
“La strada è ormai segnata anche per le imprese di assicurazione”, interviene in conclusione Alessandra Diotallevi, responsabile coordinamento attività regolamentari e responsabile servizio bilanci e sostenibilità di Ania. “Gli investimenti sostenibili sono ormai un trend consolidato per il settore, ma c’è un problema che accomuna un po’ tutti, che è quello della disponibilità dei dati. In questo senso sono state introdotte importanti normative europee che costituiscono una spinta a incamminarsi in una certa direzione, ma non ci siamo ancora. Il regolamento Tassonomia va a definire cos’è un’attività ecosostenibile (con riferimento unicamente alla e dell’acronimo Esg) proprio per consentire una disclosure degli investimenti allineati ed evitare fenomeni di greenwashing. Questo regolamento è stato applicato per la prima volta quest’anno e c’è già stata la prima disclosure tramite dichiarazioni non finanziarie, anche se parziale”. Secondo un recente rapporto Fin-Gov, continua Diotallevi, il 50% delle società non finanziarie quotate dichiara di aver comunicato una quota di fatturato allineato alla Tassonomia pari a zero. “Questo si è poi riversato su quello che hanno potuto fare le imprese di assicurazione, a loro volta, in termini di disclosure. Noi come Ania abbiamo rilevato che la quota di investimenti Taxonomy eligible resta infatti contenuta e la motivazione data è proprio quella di una mancanza di dati”, evidenzia Diotallevi. Poi conclude: “La strada è segnata, dunque, ma ancora lunga”.