Cina, India, Indonesia, Giappone e Vietnam stanno investendo nell’80 per cento delle nuove centrali a carbone previste nel mondo e sono responsabili del 75 per cento della capacità di carbone esistente
L’Asian Development Bank, Prudential, Citi, HSBC e BlackRock lavorano a un piano per accelerare la dismissione degli impianti, prima del loro esaurimento
Prudential, Citi, HSBC e BlackRock, guidate dall’Asian Development Bank, stanno lavorando a un piano in vista della prossima conferenza sul clima COP26, che si terrà a Glasgow nel novembre 2021. Piano che prevede l’acquisto e la progressiva dismissione dei principali impianti a carbone nei Paesi asiatici per ridurre l’impatto della fonte di energia responsabile di circa un quinto delle emissioni di gas serra al mondo.
Gli investimenti dei Paesi asiatici nel carbone
Ma il carbone è sempre meno redditizio sia per gli investitori sia per i governi. Secondo il rapporto, in Cina e in India l’energia ottenuta da fonti rinnovabili sarà in grado di superare quella prodotta a carbone entro il 2024. Un obiettivo che in Giappone e in Vietnam dovrebbe realizzarsi già entro il 2022, quando l’utilizzo del carbone diventerà antieconomico rispetto all’energia solare ed eolica.
L’iniziativa dell’Asian Development Bank arriva mentre le banche, su pressione dei grandi investitori, rifiutano di finanziare nuove centrali a carbone per rispettare gli obiettivi sul clima: un calo dell’elettricità da carbone dal 38 al 9 per cento della produzione globale entro il 2030 e allo 0,6 entro il 2050.
Come funziona il piano
“Acquistando una centrale a carbone con una prospettiva di 50 anni di vita e facendo cessare la sua attività entro 15 anni, possiamo tagliare fino a 35 anni di emissioni di carbonio”, ha detto alla BBC Ahmed M. Saeed, vicepresidente dell’Asian Development Bank per l’Asia orientale, il sud-est asiatico e il Pacifico.
Secondo questo meccanismo, i finanziamenti raccolti darebbero vita a due differenti strutture. La prima sarebbe dedicata all’acquisto e gestione delle centrali a carbone esistenti a costi inferiori rispetto a quelli di mercato: le centrali genererebbero così rendimenti simili a quelli attuali, con un margine di profitto più ampio, ma per meno tempo. La seconda struttura sarebbe invece dedicata agli investimenti nelle energie rinnovabili e nello stoccaggio dell’energia prodotta dai nuovi impianti, attraendo finanziamenti per conto proprio.
Le development bank si assumerebbero il rischio maggiore, acquisendo il debito non garantito e accettando rendimenti inferiori.
Un primo acquisto, secondo questo schema, potrebbe realizzarsi già nel 2022. Ma restano ancora da definire alcuni dettagli sulle modalità per incentivare i proprietari delle centrali a carbone a vendere e sul futuro degli impianti una volta chiusi. Un ruolo chiave potrebbero giocarlo anche i crediti di carbonio, strumenti negoziabili che funzionano secondo un meccanismo di compensazione: un’azienda che con la sua attività produce emissioni può ottenere un credito equivalente a una tonnellata di anidride carbonica non emessa grazie a un progetto che ha un impatto positivo sull’ambiente.