Il 14% prevede di adottare almeno una pratica di economia circolare nel prossimo triennio, mentre solo il 24% si rivela indifferente al tema
Le aziende del settore “automotive” risultano maggiormente legate a logiche di tipo lineare all’interno dei propri processi
Davide Chiaroni: “In Italia non c’è ancora un ecosistema circolare di player che lavorino insieme e spingano intere filiere verso il nuovo approccio industriale”
Le pratiche implementate
Il settore resource & energy recovery, in particolare, si colloca nella posizione migliore, seguito dalle imprese appartenenti al settore dell’impiantistica industriale e costruzioni che “hanno già intrapreso il passaggio verso l’adozione di pratiche manageriali per l’economia circolare”, spiegano i ricercatori. Chiudono il cerchio le aziende dell’automotive, che “appaiono più arretrate e ancora maggiormente legate a logiche di tipo lineare all’interno dei propri processi”. Per quanto riguarda invece il tipo di attività implementata, al primo posto spicca il “design for environment”, volto a intervenire sul ri-disegno di prodotti e processi. Circa un terzo delle aziende ha introdotto pratiche relative al “design for remanufacturing/reuse” (l’insieme delle azioni necessarie alla rigenerazione correlata ai processi di rinnovamento del prodotto e di rigenerazione dei componenti, ma anche al riutilizzo di un prodotto per lo stesso scopo nella sua forma originale o con pochi miglioramenti o modifiche) e una piccola parte è arrivata al “design for disassembly” (l’insieme di azioni per semplificare le operazioni di smontaggio delle componenti, facilitando il recupero delle stesse) e a sistemi di “take back”, vale a dire di recupero delle materie e dei componenti dai clienti finali.
I driver e le barriere all’adozione
La presenza di incentivi emerge come il driver principale all’adozione di pratiche manageriali, anche se i ricercatori evidenziano una ridotta capacità delle aziende di intervenire per influenzarne lo sviluppo. Un forte stimolo è anche l’entrata in vigore di leggi o regolamenti a supporto della transizione verso l’economia circolare, oltre alla presenza di una normativa sulle emissioni di Co2. Sul versante opposto si posizionano la prossimità geografica di specifici partner, la scarsità delle risorse, la volatilità del prezzo delle stesse e l’alto prezzo di quelle in input. Per quanto riguarda invece le barriere, l’incertezza governativa sembrerebbe non agevolare le imprese nella valutazione di decisioni strategiche per l’adozione di tali pratiche. Seguono i costi d’investimento e delle tempistiche associate alla realizzazione degli interventi e l’avversità al rischio da parte del top management.
Stando all’esperto, è necessario dunque “cambiare radicalmente prospettiva”, mantenendo i “prodotti il più a lungo possibile nel circuito attraverso l’estensione della loro vita, la ridistribuzione, il riutilizzo, la rigenerazione e, soltanto alla fine, il riciclo. In questo modo, anche connettendo più filiere che traggano beneficio e condividano parte delle risorse, risulta possibile sostenere la stessa domanda di beni e servizi con un minor prelievo di risorse naturali”, spiega. In Italia, conclude, non esiste ancora un ecosistema circolare di player che “lavorino insieme e spingano intere filiere tecnologico-produttive verso il nuovo approccio industriale”. A mancare sono in particolare le piattaforme, “ossia attori deputati a costituire un bilanciamento tra la domanda e l’offerta di prodotti, materiali o risorse, creando mercati che facilitino la circolazione delle risorse all’interno del sistema”.