Strumenti per diversificare il rischio in modo efficiente, aumentare i ritorni oppure solo un astuto meccanismo per bloccare l’investitore per anni con fee nettamente superiori alla media dei fondi tradizionali? Signore e signori: i mercati privati sono questo, a seconda che si ascoltino i sostenitori o i detrattori. Tra i primi, negli ultimi anni, ci sono sempre più reti di private banking, anche in Italia, che hanno stretto partnership importanti per offrire alla clientela un accesso privilegiato a prodotti sofisticati, dal private equity ai co-investimenti, fino al private debt. Mediobanca, Unicredit, Fideuram: solo per citarne alcuni. Sul versante opposto si schierano, a livello internazionale, studiosi come Ludovic Phalippou (University of Oxford – Said Business School) e firme autorevoli come Jason Zweig, editorialista veterano del Wall Street Journal. Lo scorso dicembre Zweig ha titolato una sua column: “Sei invitato al Private party. Dì che sei occupato“. La sua tesi? Le virtù dei mercati privati “troppo spesso si accompagnano al costo di commissioni più alte, rischi maggiori, più conflitti di interesse e meno trasparenza – e puoi vendere solo in certi momenti, non quando vuoi”.
Anche se misurare con precisione la capacità di questi strumenti di battere i mercati pubblici è complesso, da anni c’è chi ci prova. L’ultima edizione dei PitchBook Benchmarks getta un po’ di luce su quanto le più importanti strategie alternative abbiano effettivamente fatto bene al portafoglio, al netto di commissioni e costi di gestione. E i numeri non sono privi di spunti di riflessione.
Battere l'azionario Usa, una missione impossibile?
Fra tutti gli approcci, solo il private equity è riuscito a battere il rendimento dell'indice S&P 500 su orizzonti a 5, 10, 15 e 20 anni. Il confronto perde di rilevanza su periodi più brevi, che comunque non sono affini a questo tipo di investimento. Per contestualizzare, negli ultimi dieci anni l'indice azionario Usa ha reso mediamente il 12,86% all’anno, mentre la media dei prodotti di private equity monitorati da PitchBook ha garantito circa due punti percentuali in più, sempre al netto dei costi.
L’attrattiva inizia a calare quando si passa ai fondi di fondi: su orizzonti lunghi, la performance si è rivelata simile a quella dell'S&P 500 – ma con quanta volatilità in meno? E con quali compromessi in termini di liquidità? Domande che restano senza una risposta chiara. Nel mondo del private capital, però, la vera delusione è stata il venture capital: investire in startup si accompagna a rischi maggiori, ma la scommessa non ha pagato. Non solo i rendimenti non si sono avvicinati a quelli del private equity, ma hanno anche fatto peggio rispetto a tutte le altre strategie azionarie – incluse quelle sui mercati pubblici, liquidi e trasparenti. La vera doccia fredda per il settore è arrivata con l'aumento dei tassi, che ha portato a performance negative sugli ultimi 1-3 anni, mentre l’S&P 500 ha continuato a registrare rendimenti positivi. Se il confronto si sposta dall’S&P 500 all’indice azionario globale Morningstar Global, il quadro cambia leggermente: negli ultimi dieci anni, il Morningstar Global ha reso l’8,7% contro il 12,07% della media delle strategie di private capital. Un vantaggio che regge anche sugli orizzonti a 15 e 20 anni.
Se si passa ad analizzare il mondo obbligazionario e del credito, il confronto sembra dare più forza ai mercati privati. Il private debt – ovvero schemi di finanziamento in cui i fondi concedono credito a condizioni personalizzate ad aziende che non hanno accesso ai bond o preferiscono evitare la banca – ha reso nettamente di più rispetto all’high yield obbligazionario, che però offre maggiori informazioni agli investitori grazie ai rating e alle quotazioni in tempo reale. Negli ultimi dieci anni, il private debt ha reso oltre l’8% annuo al netto dei costi, contro il 3,5% dell’indice high yield. A differenza del venture capital, insomma, l'extra rischio ha generato anche un extra rendimento. E non di poco conto.