Pensando alle bevande alcoliche tipiche del Giappone ci vengono in mente sakè, birra e da quando i giapponesi hanno iniziato a farlo dell’ottimo whisky. Il vino non è tra queste. Eppure nella terra del sakè si fa anche del vino. Sia nell’isola centrale di Honshū che all’estremo nord a Hokkaidō. Il vitigno principale giapponese è il Koshu, coltivato principalmente a pochi chilometri da Tokyo, nella prefettura di Yamanashi da cui si ricava un ottimo vino bianco.
Ma anche a Hokkaidō, con clima siberiano, grazie anche alla consulenza di un enologo italiano, Riccardo Cotarella, si produce – udite, udite! – dell’ottimo spumante oltre a vini bianchi. La cultura del vino è piuttosto recente a causa del fatto che la sua diffusione è stata sempre limitata dalle antichissime tradizioni di questo Paese, da sempre chiuso alle influenze occidentali. E il clima non aiuta. Il tipico clima giapponese infatti è quanto di peggio ci sia per la vite, caldo umido con abbondanti piogge a carattere monsonico tra estate e primavera e violenti tifoni tra agosto e settembre, proprio a ridosso della vendemmia. Ad ogni modo ad oggi il vino in Giappone è una realtà anche grazie alla caparbietà nipponica, vitigni adatti a climi inclementi, buone tecniche di vinificazione nonché l’esistenza di qualche territorio con microclima che consente la coltivazione della vite.
La storia del vino in Giappone ebbe un periodo di successo tra il 1868 ed il 1912 (periodo Meiji), quando l’esercito Imperiale che si apprestava a vivere il colonialismo, per alleggerire il morale delle truppe, trovò nel vino una bevanda alcolica adatta a sostituire il sakè, fatto dal riso, che però doveva essere riservato esclusivamente per sfamare il popolo. Anche successivamente il vino rimase una bevanda destinata esclusivamente all’esercito, che ne fu l’unico consumatore fino al 1945 e lo rimase anche negli anni seguenti. Fu solo nel 1970, in occasione dell’esposizione universale di Osaka, che furono aperte le frontiere alle bevande alcoliche straniere e fu allora che il vino divenne una bevanda chic e ricercata. I giapponesi negli ultimi decenni hanno sviluppato palato e passione per il vino che sta contendendo spazi alla birra come bevanda alcolica da pasto. Gran parte del vino in vendita in Giappone viene ancora dal vecchio e nuovo mondo.
È però in forte crescita l’interesse per la produzione locale. Qualche anno fa sono stato a Tokyo assieme a un gruppo di critici gastronomici internazionali con l’obiettivo visitare una serie di ristoranti e con l’occasione abbiamo anche visitato alcuni wine bar. Siamo rimasti sorpresi dall’eccellente livello di conoscenza dei vini da parte dei sommelier incontrati sia nei ristoranti che nei wine bar. Ormai da alcuni anni in Giappone sono previste due denominazioni: “Vino Nazionale”, cioè vino prodotto in territorio giapponese anche con materia prima (uva, succo, mosto) di importazione e “Vino Giapponese”, cioè vino prodotto in territorio giapponese esclusivamente con uve coltivate in Giappone. Non solo, ma cinque prefetture hanno ottenuto la Gensanchi Hyoji, (indicazione geografica), una specie di Doc, che garantisce buoni livelli qualitativi e provenienza delle uve: quattro nell’isola centrale di Honshū e precisamente Yamanashi non lontana da Tokyo e Nagano un po’ più a nord entrambe nella regione di Chubu, Yamagata a nord, nella regione di Tohoku e la prefettura metropolitana di Osaka e la quinta a Hokkaido, l’isola più a nord dell’arcipelago.
Il koshu il vitigno nazionale giapponese è un vitigno ibrido frutto dell’unione tra la vitis vinifera e l’asiatica vitis Davidii (la vite di Davide), originaria della Cina, che ha trovato un ambiente favorevole nella provincia di Yamanashi, alle pendici del monte Fuji, dove ci sono circa un centinaio di produttori. È un’uva a bacca rosa, semi-aromatica ideale per il clima umido e piovoso del Giappone grazie alla buccia spessa, resistente al marciume. Dal koshu si ricava principalmente un vino bianco di alcolicità moderata, dal colore paglierino e dai delicati profumi di agrumi e di pesca. Storicamente, Koshu era il nome dell’area intorno alla prefettura di Yamanashi. La cantina più antica è la Dainippon Wine Co., fondata nel 1877, i cui enologi impararono in Francia le tecniche di vinificazione. Dal 2010 il koshu è stato inserito nell’elenco delle varietà di uva da vino di alta qualità dall’Organizzazione internazionale della vite e del vino (OIV). Il vino koshu è anche esportato.
Un luogo in cui si fa una viticultura che si potrebbe definire eroica è a Joichi, davanti al mare, nell’isola di Hokkaidō dove l’inverno si trascorre a -30 gradi con due metri di neve. Qui Nobuo Oda, presidente della Camel Group (7000 dipendenti e 400 negozi di cibi e vini importati distribuiti in tutto il Giappone), ha acquistato e impiantato vigneti di uva a bacca bianca quali Kerner e Chardonnay e di uva a bacca rossa Regent, Pinot Noir e Lemberger su terreni in cui la vite era coltivata da mezzo secolo, tra i due fiumi Yoichi e Nobori. La vite a queste latitudini viene allevata con il tronco sottoterra e a novembre dopo la vendemmia le piante vengono coricate a terra e i tralci sotterrati per difenderli dal gelo per restere così fino ad aprile, quando la neve si scioglie.
17 ettari dove si producono circa 150mila bottiglie la metà delle quali spumanti prodotti sia con Metodo Classico che col Metodo Charmat oltre a vini bianchi e un rosato. Il signor Oda fu ispirato da una visita alla comunità di San Patrignano, in cui notoriamente si producono vini di eccellente qualità, e in quell’occasione decise che l’uomo giusto per iniziare la produzione di vino in un clima estremo come quello di Hokkaidō era l’enologo che all’epoca si occupava dei vini della comunità, Riccardo Cotarella – che oltre a tante aziende italiane segue anche aziende vitivinicole negli Stati Uniti, Israele, Russia e Romania – e ha costruito una cantina che, dai macchinari alle botti, vede tutto know-how e tecnologia italiani. Ho avuto la fortuna di assaggiare due vini sia lo spumante prodotto con il Metodo Classico che l’Hokkaidō Kerner un vino bianco in un paio di occasioni (al Vinitaly 2018 e al Congresso Nazionale dell’Assoenologi svoltosi a Matera nel 2019), e devo dire che li ho trovati veramente buoni.