Collezionisti non sono solo le persone fisiche. Alle raccolte personali, si affiancano le cosiddette corporate art collection, le “Cac”. Il collezionismo di impresa, per la sua stessa natura, si colloca in un territorio diverso rispetto a quello strettamente personale o familiare: ha valenze fortemente simboliche e identitarie. È uno strumento potente di comunicazione dei propri valori socio-culturali, se non politici. È una definizione di status.
Per quanto riguarda l’Italia, fino a cinque anni fa il fenomeno si presentava ancora giovane e destrutturato. Ma si è rapidamente evoluto, e nell’ultimo quinquennio è stato studiato a fondo e sotto diversi aspetti. In particolare, una ricerca condotta dall’università Cattolica del Sacro Cuore, con il supporto di AXA XL e Intesa Sanpaolo, ha permesso, tra il 2015 e il 2019, di raccogliere dati su più di 200 collezioni aziendali, di metterne in luce lo stato di sviluppo, e di iniziare ad investigarne gli impatti per la vita impresa, anche dal punto di vista della prestazione sociale ed economica.
Il quadro che ne è emerso vede coinvolti diversi settori a titolo di ‘collezionisti.’ Il 25% delle collezioni risultano possedute da aziende del settore manifatturiero, il 17% dal settore creativo (moda e design), 16 % dagli
studi legali. Il restante è quasi equamente diviso tra servizi bancari e assicurativi, il settore dell’ospitalità e delle utilities. In termini di tipologia di collezioni, queste sono prevalentemente collezioni di arte contempo- ranea (53% del campione) e dell’800-900 (30%).
In che modo una collezione corporate
può avere impatto sulla vita di impresa?
Le modalità sono diverse: mettere in relazione le attività di valorizzazione e di ricerca storico-artistica, creare un rapporto tra la collezione e i dipendenti. I risultati dell’analisi dell’università Cattolica del Sacro Cuore mostrano che avvalersi della collezione aziendale solamente per attività di marketing e comunicazione è restrittivo per l’impresa. Perché la collezione abbia delle ricadute positive sulla vita d’impresa, è importante che il lavoro di marketing e branding sia supportato da un lavoro scientifico che permetta di gestire e valorizzare al meglio le opere che ne fanno parte. Ne consegue un’attività di sensibilizzazione verso i dipendenti in merito a questo patrimonio aziendale.
La ricerca storico-artistica sulla collezione d’impresa è per questo fon- damentale. Essa non è solo uno dei pilastri di una buona gestione della collezione. Può spingersi molto oltre, andando a costituire una delle fonti di generazione del valore d’impresa, integrandosi ancor più nel DNA aziendale. In che modo? Innanzitutto, attraverso una corretta iscrizione a bilancio della collezione stessa. Per esempio, valutando con consapevolezza le opere scegliendo tra il criterio del fair value (valore di mercato) o del costo d’acquisto.
Come evidenziano infatti alcuni risultati preliminari di una ricerca svolta da alcuni alumni dell’università Cattolica del Sacro Cuore (2019-2020) sul tema della contabilizzazione delle collezioni corporate, il processo di valutazione contabile e la ricerca storico-artistica sulle opere, con la relativa iscrizione a bilancio del loro valore, possono far percepire o meno ai portatori di interesse dell’impresa il valore strategico della collezione stessa. La discussione intorno al tema dell’iscrizione a bilancio della collezione al costo storico o al valore di mercato, sembra, infatti determinare negli stakeholder aziendali (dai dipendenti ai clienti, passando per gli investitori), la percezione di una diversa qualificazione della collezione: investimento identitario e socio-culturale oppure asset economico-strategico.
L’importanza di un corretto approccio alla valutazione delle opere di una corporate collection.
Le implicazioni della scelta dell’approccio allo studio e alla valutazione delle opere sono importanti per l’azienda. Non solo per la sua immagine, ma anche per il suo relazionarsi con i mercati di riferimento. A questo proposito, è importante che il lavoro scientifico non si fermi ai processi di valutazione, catalogazione e archivio, ma vada più in profondità con un processo di due diligence in grado di garantire che la collezione possa essere un ambasciatore autentico e multidisciplinare dell’identità dell’impresa.
In origine, il processo di due diligence rispondeva prevalentemente all’esigenze dei musei (soprattutto europei e americani) di preservare il proprio patrimonio, esaminandone provenienza e storia. È quindi al modello museale (nelle sue procedure rigorose), a cui le imprese dovrebbero ispirarsi o meglio seguire.
Il processo di due diligence dovrebbe essere condotto sotto la guida di professionisti indipendenti, storici dell’arte e di scienziati della conservazione e specialisti degli artisti della collezione.
Un’analisi di questo tipo comporta un’approfondita rivalutazione della paternità, della provenienza, della storia e delle condizioni fisiche delle opere, tenendo conto degli eventuali restauri. Un esempio virtuoso in tal senso è quello del Ludwig Museum di Colonia. Questo museo ha recentemente sottoposto ad analisi le sue opere dell’avanguardia russa. In totale, sono stati 49 i lavori attentamente esaminati da studiosi e conservatori. Figure professionali altamente specializzate che hanno scandagliato le opere utilizzando analisi chimiche e dei materiali, esami UV, infrarossi, radiografie. Uno studio analogo è attualmente (ottobre 2020, ndr) in corso di realizzazione congiunta tra dieci musei francesi per analizzare 29 loro opere attribuite a Modigliani. I membri del team di ricerca sono indipendenti dal mercato e una rivista scientifica riporterà i risultati dello studio. Negli anni ’90, progetto simile è stato condotto su dipinti attribuiti a Van Gogh.
Le problematiche che spesso emergono durante questi processi di analisi possono essere trasformate in opportunità. La “correzione” di eventuali errori di attribuzione precedenti, per esempio, può condurre a una rivalutazione di mercato. Oppure, nel caso in cui alcune opere si rivelino false (come è stato per 22 opere del Ludwig Museum), si può procedere a utilizzarle come strumenti di studio o esporle in mostre dedicate a dibattere la questione dell’autenticità, al fine di istruire sia il pubblico che gli studiosi.
Perciò, effettuare un solido processo di due diligence sulle collezioni d’impresa è fondamentale, costituendo una sorta di “pulizia e riordino” propedeutico a ogni altro processo di valorizzazione della collezione corporate. Per dirla con Rita Kersting, vicedirettrice del Ludwig Museum, “i visitatori si aspettano che ciò che è appeso alle pareti sia autentico”.
In un modo simile tali studi, quando svolti sulle corporate collection, dovrebbero essere la base su cui si costruiscono la trasparenza e la fiducia nell’identità dell’azienda. Per l’impresa, questi studi possono diventare quindi un mezzo fruttuoso di trasmissione dei valori di autenticità, di capacità di affrontare il rischio, di trasparenza. Non solo. Possono costituire un modo efficace per comunicare con gli stakeholder.