Come molti grandi collezionisti, non indossa gli orologi che ama. Li tiene nei caveaux. È un amore quasi distaccato, che non indulge al sentimentalismo, quello che nutre nei loro confronti. Ne ama la storia, più che il possesso: in fin dei conti, “si tratta di oggetti”. Al suo polso, “orologi molto semplici, in acciaio”. Lui è Auro Montanari, collezionista e imprenditore. Ma anche scrittore e fotografo con lo pseudonimo di John Goldberger. Anagraficamente è un boomer, essendo nato prima del 1965. Tuttavia potrebbe essere un centennial, dato l’amore per il tech (nft inclusi) e la padronanza di Instagram e dei software di editing. Senza tracce di giovanilismo: piuttosto in lui convivono una consapevolezza esclusiva e segreta del passato e la seduzione del futuro. Lo abbiamo incontrato in un pomeriggio milanese sul finire di maggio.
A tu per tu con Auro Montanari
Che orologio è quello che indossa?
“Un pezzo commissionato da Phillips per 16 amici. La cassa, in stile Heritage, l’ha disegnata Aurel Bacs. Il quadrante è di Laurent Ferrier. Non dà all’occhio, ci ho messo un cinturino giapponese”.
I suoi modelli del cuore?
“Tutti. Mi piace l’orologeria in generale. Ciò che più mi attira è l’estetica dell’orologio: meccanismo, complicazione, rarità. E provenienza”.
I libri di John Goldberger / Auro Montanari
Ma se dovessero dirle: Richard Mille o Patek Philippe, cosa sceglierebbe?
“I Patek vintage. Però nutro un grande rispetto per Richard Mille: è stato l’unico a saper dire qualcosa di diverso. Ha rivoluzionato il mercato degli orologi contemporanei, entrando in campo con tennisti, golfisti, piloti di F1. Ha colto la sensibilità dei tempi: al volante di una Lamborghini, i giovani di Singapore e Hong Kong hanno ai piedi sneaker da 5000 dollari e al polso un RM”.
Ci sarà ancora spazio per i Söhne & Lange, i Patek?
“Certo. Sono l’orologeria classica, eseguita molto bene. Sono il top di gamma. Gli indipendenti hanno portato una ventata di aria fresca. Producono in quantità limitata, artigianalmente, permettendo al collezionista di conoscere il fondatore dell’azienda e di seguirlo mentre lavora. Dufour, per dire, da solo produce quattro o cinque pezzi all’anno. Tutti aspetti che difettano ai grossi marchi”.
Possiede qualche Dufour?
“No, sono molto costosi. Quelle risorse preferisco investirle nei pezzi d’epoca. Preferisco il viaggio che si fa col vintage, conoscere la storia dell’orologio che resta – con l’automobile – l’oggetto di produzione industriale più importante del XX secolo. È stato di vitale importanza per esploratori, aviatori, allenatori, eserciti”.
Qual è stato il suo viaggio più bello?
“Non ricordo, ho preso tanti begli orologi. Ma alla fine li considero solo degli oggetti”.
L’orologio da cui tutto ebbe inizio
Com’è nata questa sua passione?
“Nel 1978 avevo 20 anni: seguivo i miei genitori, cultori di oggetti d’arte. Loro compravano mobili, quadri. Io mi annoiavo. Mio padre allora mi consigliò di cominciare ad acquistare orologi meccanici: costavano poco, meno rispetto al quarzo. Il mio primo orologio – un Rolex in oro – lo trovai per 500.000 lire da un mercante di Bologna”.
Che consiglio visionario!
“Mio padre lo è sempre stato, anche in azienda. All’inizio era un’attività da pionieri. In asta c’erano solo orologi da tasca, che io pure amo molto. Oggi si possono trovare delle complicazioni spettacolari a prezzi convenienti. Credo che i giovani possano avere un i-Watch al polso e un orologio complicato in tasca”.
Auro Montanari
L’Italia?
È stata il centro delle più belle collezioni. Negli anni ’80-’90 c’erano a Milano i migliori commercianti di orologi al mondo. Oggi quelle grandi raccolte si stanno disperdendo: trasmettere questa passione agli eredi non è facile. L’orologio è un oggetto difficile da capire: non si comprende com’è possibile che tanto valore si concentri in così poco spazio. Perciò gli orologi a un certo punto consiglio di venderli. È bene che un collezionista – giunto a una certa età – veda il compimento del viaggio. Con soddisfazione economica”.
Che fine ha fatto la piazza di Milano?
“I mercanti si sono spostati all’estero. Per la tassazione, perché i grandi collezionisti italiani sono scemati. E poi il mercato è diventato globale, si è disperso. Il collezionismo invece si è concentrato nell’estremo oriente. Il mercato è organizzato laddove si tengono le migliori aste: Ginevra, Hong Kong, New York”.
La sua collezione a che punto è?
“È un work in progress: non banale né comune. A livello economico non è importante. Possiedo anche Omega, Longines, marchi sconosciuti. Ogni tanto vendo qualcosa per movimentarla. O faccio dei cambi per diminuire il numero dei pezzi e aumentare la qualità. Non vendo direttamente ai collezionisti, anche se ho la fila. Amo rapportarmi con i mercanti: li stimo molto”.
Il pezzo preferito della collezione di Auro Montanari: un Breguet del 1936 in oro bianco, con calendario perpetuo retrogrado, modello unico
Qualche consiglio al giovane Auro Montanari del 2022.
“Compra ciò che ti piace, senza seguire i trend; compra il venditore, non l’oggetto; abbi disciplina, ossia cerca di trovare un orologio in perfette condizioni; compra rarità, provenienza e qualità; non essere in competizione con gli altri collezionisti, goditi l’orologio. Gli ingredienti del collezionismo sono entusiasmo, modestia, buon senso, perseveranza”.
L’orizzonte di mercato?
“Positivo per i vintage. Per il resto c’è una bolla: mi riferisco agli orologi da negozio – quelli per cui bisogna mettersi in lista d’attesa – sul mercato grigio anche al quadruplo del prezzo di listino. L’inflazione galoppante e la recessione alle porte spingono verso gli oggetti rari, percepiti come riserva di valore: ma di competenza ce n’è poca, come del resto in finanza. Si acquistano prodotti per sentito dire. Gli orologi sono diventati una commodity… Almeno i contemporanei. Il vintage vero invece richiede molto studio e passione”.
Quindi l’orologio è compatibile con la guerra.
“Con la pandemia, piuttosto. È allora che c’è stata l’esplosione delle vendite. La gente non aveva occasione di spendere. Così, ha investito in orologi, online: le tecnologie attuali consentono foto e filmati ad altissima risoluzione dell’oggetto che si intende acquistare. Nft, metaverso, intelligenza artificiale stanno per esplodere”.
A tal proposito, lei crede nella validità dell’nft come certificazione di autenticità dell’orologio?
“Si, assolutamente. Ci sono già società che se ne occupano. Lo mettono in una sorta di scatoletta, riproducendone in digitale anche i dettagli invisibili a occhio nudo, affibbiandogli poi un numero seriale unico”.
Cosa pensa degli Swatch?
“Mi sono sempre piaciuti. Ho collezionato i più divertenti, quelli disegnati dagli artisti”.
Cos’è il lusso?
“Avere del tempo. Le 24 ore non bastano per tutte le cose che uno vorrebbe e dovrebbe fare. Serve disciplina: premia sempre, nel lavoro come nel collezionismo”.
A parte gli orologi d’epoca (e le auto), quali altri pleasure asset ama?
Avevo iniziato a collezionare foto. Poi ho lasciato perdere. La dedizione all’orologeria richiedeva tempo e studio. Apprezzo il design anni ’60. Fra gli artisti viventi mi piacciono Richter, Hockney, Hirst. Quando vivevo a New York conobbi Warhol, Keith Haring e Basquiat, che non capivo: il suo mi sembrava solo un graffitismo evoluto. Anche a Warhol piacevano gli orologi: lo avevo conosciuto in un mercatino, da una ragazza che vendeva Cartier. Mi portò alla Factory, mi propose un ritratto per 5000 dollari. Dissi di no”.
Disse di no ad Andy Warhol?
“Con quei soldi preferivo comprarci degli orologi”.