Tutte le foto della Fondazione Marcello Morandini sono © Michele Sereni
Nel 2017 sono iniziati ufficialmente i lavori di ristrutturazione e riconversione, che per volere dell’artista, hanno rispettato l’originalità architettonica e stilistica della villa in ogni dettaglio, dagli infissi, ai pavimenti, ai cornicioni. Anche le sale interne sono state preservate con un intervento equilibrato in dialogo fra l’architettura e le opere del maestro.
La Fondazione Marcello Morandini ha inaugurato la sua sede il 4 settembre del 2021, coinvolgendo il Presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana, il sindaco di Varese Davide Galimberti e il Presidente della Fondazione Cariplo Giovanni Fosti. La Fondazione Marcello Morandini il prossimo 15 maggio 2022, inaugurerà la sua attività espositiva al pubblico, con una mostra dedicata all’arte Concreta.
La mostra ospiterà un gruppo di artisti, di cui faceva parte anche Marcello Morandini, che fondò ad Anversa il Centro internazionale di studi d’Arte Costruttiva (Internationaler Arbeitskreis für Konstructive Gestaltung – IAFKG in breve). Lo scopo della Fondazione è conservare e valorizzare la vasta produzione dell’artista, che spazia dalle opere d’arte, al design, ai progetti, tutto unito dalla ricerca artistica di Morandini volta a studiare la forma, la sua tridimensionalità e le infinite possibilità di movimento che si possono generare.
Ricerche che si presentano attraverso una scrittura in bianco e nero che si traducono in una vera sintesi delle arti, generando un ambiente dove le sue opere possono misurarsi con l’architettura che le ospita e con la dimensione umana del suo pubblico, attraverso la loro geometria infinita, possono prendere vita, generando ulteriori spazzi all’interno dell’architettura che le ospita.
La geometria nel percorso artistico di Marcello Morandini è il mezzo con cui studia e indaga il movimento nello spazio, che traduce nel mondo dell’arte e del design attraverso l’utilizzo di un linguaggio bidimensionale e tridimensionale, che si materializza attraverso le sue torsioni, tensioni, espansioni e sovrapposizioni materiche.
I suoi primi disegni legati alla ricerca artistica risalgono al 1962, mentre nel 1964 inizia le sue prime opere tridimensionali, ma quando esattamente l’arte e l’architettura – con lei è molto difficile scindere l’una dall’arta – , sono entrate nella sua vita?
“Sono giusti questi due periodi per l’inizio dei miei disegni e per il loro sviluppo tridimensionale, mentre l’architettura non ricordo precisamente, ma una cosa mi ha aiutato a capire l’atra. Il mio lavoro è legato alla progettualità, quasi ogni progetto ha dentro di sé uno stimolo una realtà architettonica. Le mie opere sono un’architettura di movimento delle forme. Questo è l’aspetto che ha interessato sempre il mio lavoro. C’è sempre uno sviluppo coerente fra le cose. Tutto nella vita deve essere uno sviluppo coerente, da come viviamo, a come viaggiamo, chi conosciamo, è importante perché aggiunge emozione e conoscenza, creando dei moti. Personalmente come base ho sempre avuto la forma e la ricerca di come potrebbe essere, come si potrebbe muovere, questo è quello che mi ha permesso di fare ricerca d’arte, ma più che altro ricerca di forme; desidero conoscere e indagare cosa si può fare addentrandosi nel mondo della geometria”.
Lei nel 2003 è stato docente all’ Accademia di Brera, cosa ha significato l’insegnamento per lei?
“Ho avuto esperienze didattiche in Germania, in Austria e in Svizzera dal 1977 al 2001 come visiting professor all’ Écal di Losanna e ho tenuto lezioni alla scuola superiore orologiera HEAA di La Chaux-De-Fonds. Ho avuto tante esperienze con gli studenti, il rapporto con loro è sempre stato positivo, tornavo a casa distrutto, perché loro avevano delle esigenze notevoli, mi chiedevano, volevano spiegazioni, mi facevano vedere i loro lavori e volevano sapere cosa ne pensassi. È stata una ginnastica mentale importante, perché in quel modo anch’io facevo lo studente di me stesso stimolando la mia mentale, loro mi aiutavano in questo esercizio.
A Brera andai perché Ugo La Pietra mi chiese di fare tre anni di accademia, ma l’esperienza durò solo un anno, perché i ragazzi erano tutti bisognosi di vivere in maniera “serena”, ma non di fare la scuola, non erano preparati. Allora me ne andai e quella fu la mia ultima esperienza legata all’insegnamento. Mi dispiace ancora oggi non essere riuscito a incidere sulla totalità degli studenti che ho avuto”.
Nel 1968 è stato invitato alla “XXXIV Biennale Internazionale d’arte” di Venezia; con una sala personale nel padiglione italiano. Che cosa ricorda di quel periodo e dei fermenti politici e sociali, che hanno portato anche a un’evoluzione profonda nell’ arte?
“È stata un’esperienza fantastica, io in quel periodo lavoravo nel mio studio a Genova e seppi che ero invitato alla Biennale, cosa straordinaria a soli 28 anni. Ero il più giovane dei 22 artisti italiani che parteciparono. È stata un’esperienza fantastica, ma con la contestazione è stato tutto molto positivo, drammatico, strano e piacevole. Il movimento studentesco mi cercava per darmi le botte, perché io non presi attivamente parte alla contestazione, altri miei colleghi invece lo fecero e girarono totalmente i quadri contro il muro per disconoscere la Biennale. Io e Giovanni Colombo non l’abbiamo fatto, siamo stati gli unici due artisti che decisero di non avvallare le sommosse, i sabotaggi e gli scontri. Inviammo anche un telegramma alla stampa, per prendere le distanze.
Quando uscivamo dalla sede italiana della Biennale, per fare l’allestimento con Carlo Scarpa, che imprecava contro gli allestitori perché erano troppo lenti, venivamo scortati. Le mie opere erano state posizionate all’ingresso del padiglione Italia, ero il primo a vedersi, ed ero molto felice, sul fianco discosto c’era Fontana, con un bellissimo Ambiente. Mario Nigro piangeva perché non voleva, girare il quadro, ma mentre piangeva lo girava.
La cosa drammatica è che dei 22 italiani che parteciparono nel 68 alla Biennale, sei morirono durante la Biennale, uno per un incidente, altri per malattia. La Biennale poi è stata chiusa per un mese e noi artisti siamo stati chiamati in Accademia a Milano dal Direttore, che ci ha sedati e la Biennale è stata riaperta. Quel giorno ricordo che per andare a Brera, passai dal bar Jamaica per prendere un caffè e c’erano diversi artisti arrabbiati con me per la mia mancata posizione… poi la Biennale riaprì al pubblico e il mio lavoro venne apprezzato, ero felice.
La sua prima mostra personale è stata a Genova nel 1965, curata da Germano Celant, che ricordo ha di lui?
Celant era un grande amico. Inizialmente molto criticato, ma molto importante, perché sapeva quel che faceva. Ha aiutato delle gallerie a fare dei programmi importanti. Per esempio con la Galleria Bertesca a Genova, portando per la prima volta la Pop Art americana e subito dopo l’arte Povera, che lui amava e aveva fondato. Lui era molto fiero e duro, per me era un grande amico e ha avuto un grande successo internazionale.
Nel suo personalissimo rapporto con l’arte, la moda, il design e l’architettura, vede delle differenze o hanno bisogno l’una dell’altra?
La moda è un mondo che non sta mai fermo, l’architettura sta ferma, la moda continua a muoversi dal tessuto in poi e a me non interessa un mondo che ha così tanta libertà, perché non si controlla bene, mentre la progettazione di architetture o di oggetti di design si possono controllare. L’architettura e l’arte nel mio lavoro hanno bisogno l’una dell’altra, non c’è differenza.
Quando si studiano e si disegnano delle forme geometriche è sempre un’architettura del conoscere e dentro a queste forme c’è un’architettura del pensare, dell’abitare. L’architettura mi ha sempre emozionato, volevo fare l’architetto, ma non è mai stato possibile per ragioni economiche, non era semplice fare l’università all’epoca, bisognava avere un fisico economico. Io sono andato a lavorare molto presto nel 58, ed è stato un inizio importante che ha segnato il mio percorso. Da disegnatore meccanico a disegnatore grafico a Milano sono arrivato a conoscere Brera.
Ha collaborato con diversi architetti e innumerevoli studi di architettura, in Italia e all’estero, come Mario Miraglia a Varese, Ong & Ong a Singapore . Che cosa l’ha colpita della diversità fra l’Occidente e l’Oriente nel percepire l’architettura?
Con l’architettura ho fatto molte collaborazioni importanti, corposa quella di Singapore ma di grande importanza anche quella con lo studio Miraglia di Varese. Quello che è determinante quando si va all’estero soprattutto in Oriente, è che si crede di portare molto di se stessi e di poter contribuire tantissimo con il proprio credo, ma non è così. Ci sono realtà che non si conoscono e vanno rispettate. Ci sono regole sociali, religiose, ambientali, che non ti permettono di sbagliare ma di fare quel che è giusto in quei luoghi.
Come e quando è iniziato il progetto della Fondazione?
Io ho sempre desiderato avere una mia fondazione, dove far conoscere e far vivere il mio lavoro, ma pensare è una cosa e realizzarla è un’altra. Ho sempre fatto sculture e opere per progettare e conoscere, tutte le opere che ho fatto se si vedono nel tempo, danno sempre altre informazioni importanti, ti permettono di continuare a conoscere. In alcuni casi ho voluto far rivivere delle opere in altre situazioni, in altre invenzioni plastiche. Questo è molto importante perché vuol dire che sono opere che hanno e avranno una vita continua, grazie alla vita delle forme e della geometria.
La Fondazione si è potuta realizzare grazie a due collezionisti, amici di New York, che collezionavano le mie opere da anni. Li conobbi alla Rosental, alla fine degli anni 80; loro continuavano a dirmi che avrei dovuto avere una parte del mio lavoro in un museo o in una fondazione. Provarono ad aiutarmi nel trovare lo spazio adatto, ma fu molto difficoltoso, così durante un pranzo mi dissero che mi avrebbero dato loro i soldi per aprire una mia fondazione e così è stato. Con quei soldi ho potuto acquistare questo luogo e restaurarlo. Restauro che è venuto bene, ma che ha sempre bisogno di essere vivo, come tutta la fondazione, le opere possono essere sostituite, fatte girare a rotazione. Attualmente dobbiamo fare ancora l’ascensore che è l’equilibrio per questo luogo, per le persone e per gli ospiti. Poi c’è ancora tutto il giardino che vorrei bellissimo. Il 15 maggio inaugureremo la prima mostra della fondazione, dedicata alla conoscenza dei lavori degli artisti appartenenti all’arte Concreta. Questo luogo è dedicato all’arte concreta e programmata e ho trovato giusto iniziare con loro.
La Fondazione Marcello Morandini permette al pubblico di poter investire sia sulla cultura che sul collezionismo con due importanti progetti: Una Storia d’Amore, grande progetto d’Arte Ambientale e Un multiplo, un amico.
Una Storia d’Amore grande progetto d’Arte Ambientale, in cui ogni albero del parco della fondazione sarà abbracciato da un anello bianco alla base. Chiunque potrà adottare uno di questi anelli, divenire parte integrante dell’opera di Marcello Morandini e avere il proprio nome inciso su di esso. Una sorta di matrimonio con l’arte, un’idea romantica di unione tra l’artista, l’arte, la villa e le persone.
Un multiplo, un amico è un progetto avviato dalla fondazione dal 2019, per un sostegno concreto alle attività culturali e istituzionali di questa realtà. Ogni anno l’artista realizza un opera in 100 multipli, 50 in bianco su nero e 50 in nero su bianco, dando così la possibilità di creare una collezione che crescerà di valore nel tempo.
Secondo i più recenti dati, il fatturato complessivo delle opere di Marcello Morandini) vendute nel 2021, è di 88.108 euro. Le sculture dell’artista rappresentano il 78% del volume d’affari pari a 1.088.863 euro. In particolare, il valore delle sculture in legno laccato oggi varia dai 2.000 ai 15.000 euro in base alla dimensione e alla datazione delle opere. Mentre quello delle sculture in plexiglass varia da 1.500 a 10.000 euro. Tra il 2016 e il 2021 si è raggiunto il più alto tasso di transazioni con il record d’asta aggiudicato nel 2016 per 41.100 euro per la scultura in plexiglass « 316 » realizzata nel 1988.