1 – Incentivi
Auspico che gli incentivi fiscali siano un volano di marketing per l’investimento nei private market. Al contempo, spingo per evitare che con gli inventivi fiscali si ingenerino i meccanismi di moral hazard che hanno portato, purtroppo e sfortunatamente, all’implosione del mercato dei fondi di real estate italiani.
Per evitare che la storia si ripeta o “faccia rime”, mi spiego meglio. L’incentivo fiscale deve e può creare una più ampia comfort zone dove l’investitore può accedere a una nuova categoria di investimento, più rischiosa e meno liquida di quelle in cui tradizionalmente investe. In questo senso, l’incentivo fiscale contribuisce a creare una crescita potenzialmente accelerata per gli asset under management del settore.
È importante che, con la conseguente maggiore disponibilità di denaro a disposizione dei gestori – commitment e, con l’investimento, asset under management – si mantenga la disciplina di investimento nei fondi, la selettività dell’investimento. È dunque importante che non si abbassi l’asticella “morale”, ammettendo investimenti che, da un lato, fanno ruotare il capitale (ovvero utilizzano il commitment), generano commissioni e portano a lanciare nuovi fondi, ma dall’altro non generano rendimenti adeguati. Tutto ciò nell’assunto che basti lo sconto fiscale a compensare l’investitore finale.
Con una corsa al ribasso qualitativo della selezione dell’investimento per ruotare il capitale e sfruttare gli incentivi fiscali si rischia di fare terra bruciata intorno a una asset class vitale per l’economia italiana, volano di finanziamento per le imprese e di redditività per risparmi e pensioni. Questo peccato mortale ha già tarpato le potenzialità di sviluppo dei fondi di real estate che potevano essere un altro importantissimo strumento a disposizione degli investitori.
2 – Trasparenza
Il profilo di rischio rendimento degli investimenti di private equity, e private market in generale, ha una specifica valenza che auspico venga sempre meglio compresa e spiegata agli investitori. Più ci si rivolge a nuovi segmenti di mercato e quindi a investitori meno esperti – e questo è il caso della democratizzazione – più la narrativa esplicativa tende a semplificarsi.
Simple but not simpler, dicono gli anglosassoni, intendendo che è importante semplificare ma senza scadere nell’ipersemplificazione. È irragionevole vedere ampio (ma non circostanziato) utilizzo di messaggi e illustrazioni a fini di marketing che danno la “spintarella” (il nudging) all’investitore mostrando potenzialità di moltiplicazione di 10 volte dell’investimento.
L’industria dovrebbe velocemente dissociarsi da questa comunicazione che rispolvera gli istinti di avidità e paura (greed and fear of missing out – Fomo) ma che inesorabilmente avrà il solo effetto di creare un boomerang di disillusione già a medio termine, intorno ai 5 anni, quando i rendimenti cumulati mediani saranno (con alta probabilità) ben più bassi di quelli pubblicizzati.
Questo non significa che non esistano 10x deal, gli affari che decuplicano il capitale, nei mercati privati. Significa però che, in un ambito necessariamente e prudenzialmente diversificato, l’attesa di rendimento a lungo termine sia di 1,5-1,6 volte il capitale investito (come dato di riferimento, questo è il parametro fornito da Calpers, ovvero uno dei fondi pensione della California che è tra i maggiori investitori professionali al mondo).
3 – Impatto
Uso un termine generico che non vuole essere un riferimento (modaiolo) a Esg o impact investing, anche se non sottovaluto le importanti implicazioni di questi approcci. Vorrei parlare dell’impatto del private equity come motore di rendimento nei portafogli di risparmio e per le pensioni e come strumento di efficiente allocazione di risorse all’economia reale.
Questo è un auspicio di sintesi. Credo che se le ampie risorse che possono essere mobilitate per l’investimento in veicoli di investimento dedicati ai private market verranno utilizzate secondo criteri di economicità (definizione un po’ accademica e arcaica, ma efficace), il sistema Paese ne può risentire in modo veramente positivo.
Il private equity è uno strumento di governance molto potente, quanto meno sotto il profilo dell’attenzione alla competitività dell’azienda che va tirata a lucido per essere rivenduta al meglio: ottimizzazione di costi, crescita dei ricavi ed efficienza finanziaria, apertura di nuovi mercati, professionalizzazione del tessuto manageriale delle imprese italiane, che sono ancora in maniera preponderante a gestione quasi-familiare o monocratica dell’imprenditore.
Innegabilmente la disciplina dell’approccio di gestione del private equity può portare con sé degli stress di sistema, con delle possibili riallocazioni di risorse verso i settori più competitivi, ma credo che la struttura economica del nostro Paese abbia adeguate capacità per assorbirli. E credo che comunque ne abbia la necessità.
Tuttavia, se gli obiettivi reali sono raggiunti, i rendimenti finanziari hanno le potenzialità per essere adeguatamente attraenti per remunerare adeguatamente gli investitori, a prescindere da incentivi fiscali o di sorta. Tra le conseguenze positive, da ultimo ma non meno rilevante punto, la combinazione tra migliore redditività delle imprese e rendimenti finanziari ha un impatto fondamentale per compensare il gap pensionistico che il contesto demografico sta inesorabilmente creando.
Ad maiora, private equity!