Potrebbe essere il momento ideale per il turnaround. Ovvero di quella tipologia di operazione finanziaria di private equity che serve a rimettere in sesto un’impresa in dissesto o difficoltà tramite l’ingresso dell’investitore nel capitale di rischio. In Italia, a fine 2019, c’erano 1700 imprese potenziali beneficiarie di questi capitali privati. Lo ha rilevato l’associazione italiana di categoria dei capitali privati, Aifi, in una sua recente indagine (se ne è parlato durante l’evento “Il private capital per il rilancio delle imprese”, organizzato con Back to Profit).
Secondo la ricerca, le imprese candidabili come target presentano ricavi fra i 10 e i 300 milioni di euro e utile ante imposte positivo nell’ultimo triennio. Si tratta di società che operano prevalentemente nei comparti dei beni e servizi industriali (36%) e del manifatturiero (18%), e che occupano circa 170.000 addetti e fatturano 55 miliardi di euro in totale.
Come detto, i dati Aifi fotografano la situazione al 2019. Dopo l’anno e mezzo di lockdown generalizzati, il fabbisogno di capitali delle imprese è aumentato. Né il canale bancario può sopperirvi: i crediti semideteriorati delle banche (Utp) sono cresciuti di svariate decine di miliardi (le proiezioni dello studio parlano di uno stock ingrandito di 20-50 miliardi al 2022). Può invece essere d’aiuto il mercato dei capitali privati. E il segmento più adatto a sopperire ai finanziamenti bancari per le imprese in affanno è quello del turnaround, pur essendo ancora sottosviluppato: meno di 10 operazioni e circa 100 milioni di euro investiti ogni anno.
Varie sono le modalità con cui un fondo di turnaround può intervenire a supporto di un’impresa. Come sottolinea Dario Inti, managing director Back to Profit, in primo luogo, possono esserci fondi comuni di ristrutturazione a doppio comparto (crediti UTP e nuova finanza). Poi, il FIA+SPV, un modello che beneficia di una maggiore liquidità rispetto al doppio comparto, dato che ricorrendo alla cartolarizzazione dei crediti, accede a una platea più ampia. Ancora, i fondi comuni di ristrutturazione come Amco, di proprietà del ministero dell’Economia e delle Finanze.
Le
Management Platform costituiscono invece partnership tra fondi internazionali e società di management detentrici, oltre che di competenze finanziarie, anche industriali. È il modello che adottano i megafondi. Gli
Assuntori infine agiscono in contesti di concordato preventivo o fallimentare, in stretta partnership con partner industriali. Accanto agli operatori privati vi sono poi le
finanziarie regionali (come Finlombarda e Friulia) che, con interventi specifici per il territorio mettono in atto programmi di supporto alle aziende in difficoltà. Tutti questi modelli di investimenti turnaround attingono al credito deteriorato che origina da banche e tribunali per il rilancio delle imprese. «I modelli di intervento del private capital mostrano capacità di sviluppo di soluzioni ad hoc, in un contesto tuttavia migliorabile», prosegue Inti. «Occorre aumentare il numero delle operazioni di ristrutturazione di successo con una “chiamata alle armi” di professionalità adatte a questo non banale mestiere».
Durante la presentazione della ricerca, Innocenzo Cipolletta, presidente Aifi, ribadisce una sua convinzione di lungo corso: «Per rilanciare le imprese in crisi serve investire nella crescita del private capital attraverso un fondo di fondi istituzionale che faccia da volano e permetta la moltiplicazione degli operatori dedicati a questo comparto».
Potrebbe essere il momento ideale per il turnaround. Ovvero di quella tipologia di operazione finanziaria di private equity che serve a rimettere in sesto un’impresa in dissesto o difficoltà tramite l’ingresso dell’investitore nel capitale di rischio. In Italia, a fine 2019, c’erano 1700 imprese pot…