“Quousque tandem Catilina abutere patientia nostra?”.
Questo incipit celeberrimo delle “Catilinarie” di Cicerone
(che tradotto significa “Fino a quando dunque, Catilina,
abuserai della nostra pazienza?”) si applica in pieno al
dibattito se estendere o no il divieto di inducement
(incentivi, nel gergo invece si usa il termine di retrocessioni)
a quelli tra società prodotto e intermediario di distribuzione (con
riconoscimento di parte dell’importo da questa ai consulenti “fuori
sede”, ove la prima li utilizzi, come avviene in prevalenza).
Inducement e Mifid 1: cosa prevede la direttiva sulle
retrocessioni
La (direttiva europea) Mifid 1 introdusse il divieto con
esclusione della distribuzione. E in effetti l’esclusione è
pienamente logica. Basti pensare al caso tipico di “inducement”,
quello tra sgr -gestore di fondi comuni – e intermediario di
gestione individuale in fondi: questi ha il compito di individuare le
quote dei fondi gestiti dalla prima, che così lo incentiva a
scegliere i propri.
La (direttiva europea) Mifid 1 introdusse il divieto con
esclusione della distribuzione. E in effetti l’esclusione è
pienamente logica. Basti pensare al caso tipico di “inducement”,
quello tra sgr -gestore di fondi comuni – e intermediario di
gestione individuale in fondi: questi ha il compito di individuare le
quote dei fondi gestiti dalla prima, che così lo incentiva a
scegliere i propri.
È un incentivo che è atipico, in quanto il gestore
individuale svolge la propria attività nell’interesse dei clienti,
i quali sono la controparte della sgr.
L’incentivo corre così, effettivamente – almeno così sembra
“prima facie” – il rischio concreto di distrarre il gestore
individuale dalla considerazione esclusiva dell’interesse dei
clienti e da un processo corretto di individuazione delle scelte
di investimento.
A dir la verità, il rischio è solo teorico e può essere
agevolmente escluso da un’analisi concreta: le retrocessioni dal
gestore collettivo al gestore individuale sono di importo
circoscritto e tale da non compensare la diminuzione di commissione
di gestione riconosciute al secondo direttamente dal proprio cliente,
inevitabile in caso di scelte negative dei fondi: e infatti, tale
commissione è proporzionale rispetto al patrimonio
conferito in gestione individuale, patrimonio che cambia ovviamente
in funzione della “performance”, aumentando se questa è positiva
e diminuendo in caso contrario.
In sintesi, l’incentivo in tal caso è nel concreto inidoneo a
deviare il processo di investimento del gestore individuale dai suoi
retti binari: serve a rinsaldare i rapporti tra operatori
istituzionali.
Peraltro, anche se sarebbe stato preferibile escludere il divieto,
in questo caso i presupposti astratti ricorrono e così
l’applicazione del divieto è – criticabile, ma – comprensibile.
Il rapporto tra società prodotto e intermediario di
distribuzione
Invece, nel rapporto tra società prodotto – sgr per i fondi
comuni, compagnia di assicurazione, emittente di titoli – e
intermediario di distribuzione il divieto è semplicemente
illogico e privo di senso, in quanto quello che viene
riconosciuto dalla prima al secondo non è un incentivo, ma è un
compenso per l’attività di distribuzione prima e poi per
l’assistenza al cliente – in modo anche da sconsigliare il
disinvestimento, ovviamente nel rispetto indefettibile e assoluto
dell’interesse del cliente stesso.
Non è un qualcosa di estraneo ai doveri contrattuali del secondo
– e anzi in potenziale contrasto con essi, come nel caso del
rapporto tra gestore collettivo e gestore individuale – ma è il
corrispettivo degli stessi.
Il discorso – come visto estremamente lineare – viene complicato
artatamente, e inutilmente, evidenziando che la consulenza è invece
esercitata nell’interesse esclusivo dei clienti e sulla base di un
contratto con questi.
Ebbene, tra i due profili sembra esservi un contrasto che invece a
ben guardare non vi è.
La consulenza tra distribuzione e promozione
La consulenza è l’elemento qualificante e tecnicamente e
intellettualmente rilevante dell’attività di distribuzione e
promozione, la quale costituisce il punto terminale di un
complesso processo, il cui elemento centrale è la stessa consulenza.
Non a caso la grande novità della disciplina in materia, a partire
dalla l. n.1/91, poi arricchita e perfezionata con il Tuf del 98 con
le integrazioni di queste anche grazie al recepimento della Mifid 1 e
2, è stata proprio quella di far assurgere l’attività
distributiva, che è di per sé commerciale, al livello dei servizi
di investimento finanziario, vale a dire dell’intermediazione
finanziaria, attività ottimale di indirizzo del cliente.
Tale salto di qualità è stato reso possibile proprio dalla
caratterizzazione in senso consulenziale dell’attività di
distribuzione e promozionale.
Le due attività sono tra di loro complementari, in
termini non solo fattuali ma anche giuridici e valoriali, nel senso
che il compito dell’attività di consulenza è quello di
indirizzare ed elevare quella distributiva.
Il compenso dell’attività distributiva non è così in
grado di deviare l’attività dell’intermediario e del consulente
da un corretto processo di investimento, proprio perché all’esatto
contrario è l’operatività di consulenza che eleva il livello di
quella di distribuzione.
Il divieto di riconoscere quello che è non un incentivo ma il
compenso dell’attività distributiva si rivelerebbe
inesorabilmente incostituzionale per lesione dell’iniziativa
economica privata (art. 41) e in particolare del diritto
dell’intermediario e del consulente al compenso della propria
attività.
Per mero inciso, anche se fosse un incentivo – e non lo è -,
visto il notevole incremento di servizio procurato, rientrerebbe nei
canoni di ammissibilità della Mifid.
Dalla consulenza finanziaria fuori sede alla consulenza
olistica
Chiuso l’inciso, a ben vedere, dietro la prospettazione del
divieto in questione vi è la mancata comprensione della figura della
consulenza finanziaria “fuori sede” e del valore aggiunto
che essa fornisce al cliente, con l’indirizzo costante e
qualificato dell’intera sua operatività, resa possibile dalla
sinergia tra le due attività.
Fa capolino la suggestione che solo la consulenza cosiddetta
autonoma (artt. 18bis e 18ter Tuf), vale a dire quella svolta
sulla base di un rapporto esclusivamente con il cliente e con
remunerazione solo da questi e non da intermediari e società
prodotto, sia l’unica vera consulenza in quanto priva di
condizionamenti.
È una suggestione del tutto priva di aderenza alla realtà, in
quanto fissa una gerarchia tra diverse attività di consulenza basata
su una concezione aprioristica di conflitto di interessi senza
considerare che questi è in radice escluso nel nostro caso, in
quanto le due attività svolte sono tra di loro sinergiche per
fornire un valore aggiunto al cliente, e addirittura le sinergie sono
previste dalla legge in termini di meritevolezza valoriale.
Ed è proprio qui che si snoda il passaggio fondamentale: solo
il consulente “fuori sede” è in grado di assistere il cliente
presso la società prodotto e di seguire i suoi investimenti in
tutte le loro fasi. Il consulente “fuori sede” è colui che
assurge al livello di interlocutore del cliente in tutte le sue
esigenze con l’intermediario ed è l’unico in grado di assicurare
che l’intermediario possa adeguarsi, in tempo reale, a tali
esigenze.
Di qui passaggio alla consulenza – evidentemente solo “fuori
sede”- olistica, che abbraccia ogni esigenza di investimento
del cliente, anche non finanziaria: assistenza ai soggetti privati
non autonomi (nel senso di non essere in grado di provvedere a sé
stessi, per anzianità o per disfunzioni), operazioni azionarie e
societarie, il che richiede l’intervento di esperti,
professionisti, banche di investimento, “trust”, rispetto a cui
il consulente “fuori sede” opera da regista, essendo
l’unico in grado di interpretare e tradurre le esigenze del
cliente.
È una vera e propria rivoluzione in base a cui gli investimenti
finanziari sono solo una componente di una pianificazione di tutte le
esigenze economiche del cliente, come solo il direttore finanziario
di una grande impresa è in grado altrimenti di assolvere. E così il
consulente “fuori sede” diventa protagonista del processo di
democratizzazione dell’economia, per cui anche cittadini
-appartenenti non solo alle classi alte – possono avvalersi dei
servizi che di solito hanno come destinatari solo le grandi imprese.
La consulenza autonoma, proprio per l’estraneità alle società
prodotto, non potrà mai assolvere a tale ruolo.
Sono due forme di consulenze alternative, con le proprie
caratteristiche, che le rendono irriducibili l’una all’altra, per
cui non ha senso porre delle gerarchie.
Il cliente può scegliere in autonomia quella di cui avvalersi,
senza astratte e ingiustificate preclusioni.
Quella autonoma è più rispondente ai canoni tradizionali della
figura professionale separata dal ciclo produttivo a cui essa si
riferisce e presenta le caratteristiche della terzietà, ma proprio
per questo ha dei limiti – non solo operativi, sia ben chiari, ma
addirittura di perseguimento di interessi e di valori – rispetto
all’altra, la quale, proprio perché inserita organicamente in
detto ciclo produttivo, è più ricca ed articolata.
Quali gli effetti del divieto?
In definitiva, il divieto in questione è del tutto inammissibile.
Per completezza, in senso contrario a esso, depongono anche
considerazioni pratiche, vale a dire:
- il contratto unico con il cliente tenuto attualmente dalla società
prodotto, che poi riconosce una parte della commissione
all’intermediario, verrebbe sostituito da due contratti, uno tenuto
sempre dalla società prodotto e l’altro dall’intermediario, con
maggiori complicazioni e oneri; - la commissione di sola consulenza sarebbe assoggettata ad Iva, con
aumento non banale, a parità di ricavi per società prodotti e
intermediario, dei costi a carico del cliente; - infine il cliente dovrebbe intrattenere il rapporto direttamente
con la società prodotto, rendendogli il tutto molto più oneroso in
termini di incombenze, complicato e farraginoso.
Con il divieto, in pratica, si renderebbe impossibile la vita a
consulenti, intermediari, società prodotto e soprattutto clienti.
La posizione delle varie associazioni di categoria
E così tutte le Associazioni di categoria si sono giustamente
schierate contro il divieto.
Singolarmente, proprio da esponenti autorevoli (non tutti, ma la
minoranza) del mondo dei consulenti “fuori sede”, pur fermo
restando l’attuale schierarsi contro il divieto, si è lanciata
un’apertura a favore del contratto di consulenza “a parcella”,
in modo da prefigurare nel futuro l’eliminazione del compenso dalla
società prodotto all’intermediario, il quale sarebbe remunerato
esclusivamente con la commissione di consulenza, questa poi sola
retrocessa al consulente.
In tal modo, si alimenta l’equivoco che l’unica forma di
consulenza vera sia quella che non effettui attività di
distribuzione.
Ebbene, è singolare che tale equivoco venga alimentato
all’interno della categoria.
L’Anasf, Associazione di categoria dei consulenti “fuori
sede”, è stata protagonista di una battaglia trentennale per
l’affermazione – realizzata, salvo ulteriori conquiste da ottenere
– della categoria stessa in senso consulenziale, in modo da
emanciparla da un profilo meramente commerciale.
Ebbene, ciò vuol dire che, all’interno della categoria, vi sono
incertezze, evidentemente da parte di settori che ancora non credono
alla loro professione nella sua reale consistenza e nella sua
straordinaria ricchezza.
Il punto va messo a fuoco: la professione ha fatto progressi da
gigante. Basti pensare ad alcuni aspetti:
- i consulenti “fuori sede” non sono mai stati coinvolti, se non
con assoluta marginalità, nei grandi scandali finanziari (risparmio
tradito, derivati); - in ogni caso gli illeciti dei consulenti sono nel tempo diminuiti
in via assoluta in modo impressionante; - alcuni recenti scandali immani passati alla cronaca sono opera di
ex consulenti che in quanto particolarmente intraprendenti e capaci
hanno fatto un salto di qualità in alto, che li ha indotti a
esagerare e a proporre operazioni spericolate, ormai impossibili per
un consulente; - la qualità dell’operato dei consulenti è cresciuta a
dismisura, con grande professionalità nell’offrire i più
disparati prodotti e servizi, anche di natura non facile; - stesso discorso riguarda l’offerta di prodotti e servizi non
della casa (cosiddetti multi-brand), ormai diffusa in modo
generalizzato, soprattutto negli intermediari di distribuzione non
piccoli.
Il vero è che la professione è cresciuta, in maniera vertiginosa
e vorticosa, facendo progressi da gigante in un arco temporale
ristretto, vale a dire trent’anni, che sembrano un’enormità, ma
non lo sono per una rivoluzione economico-giuridica così ampia,
soprattutto tenendo conto che essa si è realizzata in un contesto di
liberalizzazione economica e finanziaria dalla portata non univoca,
in quanto contrassegnata – accanto a un forte sviluppo – anche da
danni e distruzioni.
E non a caso, in tale contesto, la consulenza finanziaria
“fuori sede” è riuscita a restare incontaminata dagli aspetti
negativi, prendendo solo quelli positivi. E non a caso le
direttive Mifid recepiscono interamente il modello italiano della
consulenza “fuori sede”, a cui hanno poi fornito integrazioni e
miglioramenti.
Per la prima volta, nella Storia dell’unificazione europea, non
è stata l’Italia a recepire la normativa comunitaria (a volte
disastrosa come nelle crisi bancarie), ma è successo l’esatto
contrario: è un qualcosa di cui dobbiamo essere orgogliosi e che non
dobbiamo certamente dismettere in omaggio a “stravaganti” (in
quanto prive di base tecnica) mode.
Ed è di estremo rilievo la
circostanza che i consulenti ci hanno messo del loro per realizzare
tale capolavoro.
Ebbene, in una categoria capace di fare passi da gigante, non vi è
da stupirsi se alcuni suoi rappresentanti – non tutti per fortuna, ma
solo una minoranza, anche se autorevole – sia rimasta indietro e non
sia in grado di reggere il passo.
Come corollario, la terzietà della consulenza viene conquistata
sul campo anche da quella “fuori sede”, nel momento in cui
indirizza veramente il cliente in modo globale, legando
indissolubilmente i propri compensi alla soddisfazione effettiva dei
bisogni di quest’ultimo. E un indice, non solo significativo, ma
addirittura eclatante, di tale circostanza è costituito dalla
distribuzione di prodotti non della “casa”. È questa una vera e
sostanziale autonomia, fondamentale in quanto inserita in un modello
caratterizzato da ricchezza e da profonda articolazione.
“De hoc satis” (ossia,
“Di questo è abbastanza”)
come insegnano tuttora i latini.