Quando si parla di diversificazione esiste, in qualche modo, una differenza fra ciò che viene raccomandato agli investitori finali e il modus operandi dei professionisti. Mentre per l’investitore finale un’elevata diversificazione viene normalmente indicata come la via maestra; per i gestori “superstar”, invece, la chiave per ottenere performance stratosferiche (o comunque superiori alla media) consiste spesso nel restringere il campo d’azione su meno titoli. Colpi “ben assestati” su poche azioni.
L’esempio più celebre di questo approccio di concentrazione è quello che da sempre caratterizza lo stile di Warren Buffett. Il numero di azioni di Berkshire Hathaway sono di solito una cinquantina (l’ultima dichiarazione indica un totale di 49 azioni), il che significa che acquistando un singolo Etf che replica l’S&P 500 si godrebbe di una diversificazione nettamente superiore a quella perseguita da Buffett. Non solo: l’Oracolo di Omaha predilige scommesse forti su poche società, sul cui business crede fortemente. Basti dire che oltre il 41% del portafoglio di Berkshire Hathaway, alla fine del terzo trimestre 2022, era costituito dal solo titolo Apple. Si tratta di un’evidente contraddizione dell’adagio “non mettere tutte le uova in un solo paniere”. Come noto, per Buffett, la strategia ha funzionato sulla lunga distanza: fra il 1965 e il 2021 Berkshire Hathaway ha prodotto un ritorno composto del 20% contro il 10,5% dell’S&P 500.
Un altro celebre esempio di questo approccio concentrato, che negli ultimi anni aveva destato molti entusiasmi è quello di Cathie Wood e del suo Ark Etf: appena 28 titoli in portafoglio, concentrati nei settori tech e biotech. Una strategia che ha incrementato di molto la volatilità del fondo rispetto a quella dell’S&P 500 e che, su una distanza di cinque anni (al febbraio 2022) non ha pagato – a causa del crollo dei titoli tecnologici seguito al rialzo dei tassi.
Diversificare meno si associa a sovraperformance?
Il mito dello stockpicking, della selezione accurata dei titoli per battere il mercato, continua ad alimentarsi di storie di successo, ma, ancora una volta le statistiche dovrebbero scoraggiare un approccio di questo tipo.
Plato Investment Research ha voluto mettere alla prova l’idea che restringere la diversificazione, per un fondo d’investimento, possa essere un fattore correlato a migliori risultati, relativamente ai fondi che investono su un largo numero di titoli. Dal momento che i gestori superstar hanno portafogli concentrati, di solito, su meno di 50 titoli, è interessante esaminare l’esito di questo confronto, basato su tutti fondi azionari globali presenti sul database di Morningstar.
Nella fascia dei fondi azionari iperconcentrati, con meno di 25 azioni in portafoglio, la performance relativa rispetto al Msci World, è stata peggiore di 11,1 punti nel 2022 e del 7,5% nella media di 2021 e 2022. Per i fondi che hanno fra i 25 e 50 titoli in portafoglio la sottoperformance è stata notevolmente più bassa nel 2022, mentre nella media del 2021-22 è rimasta sostanzialmente invariata.
Man mano che sale da diversificazione, come si può osservare dal grafico, la differenza fra l’andamento dei fondi e quello dell’indice di riferimento si restringe (in un solo caso si è osservata una sovraperformance sull’Msci World, per i fondi compresi fra i 75 e i 100 titoli, ma nel solo 2022). Interessante notare come nel 2022, in un mercato orso, i fondi concentrati abbiano mediamente peggiorato l’andamento medio del mercato, nonostante la limitazione della volatilità sia spesso uno dei cavalli di battaglia di chi sostiene la gestione attiva del portafoglio nei periodi di crisi.
Un confronto sulla lunga distanza
Una precedente ricerca condotta da Morningstar su un periodo più ampio, 1994-2018, aveva mostrato come non ci fosse una significativa differenza nelle performance fra i fondi più o meno diversificati. Né in meglio né in peggio. Piuttosto, l’evidenza mostrava che questi ultimi caricavano costi di gestione decisamente più elevati: vale la pena pagarli? L’esperienza di lungo periodo farebbe propendere per il no. “Sebbene non vi sia una relazione significativa tra la concentrazione e i rendimenti lordi, i fondi più concentrati tendevano ad applicare commissioni più elevate rispetto a quelli meno concentrati“, aveva concluso Morningstar sul tema, “ciò è coerente con l’idea che gli investitori possano essere disposti a pagare un po’ di più per scommesse attive più audaci. Tuttavia, questo studio suggerisce che potrebbe non valere la pena pagare un premio per un portafoglio concentrato e ad alta convinzione, dal momento che non ci sono prove di probabilità significativamente migliori di sovraperformance“.
La storia, però, non si esaurisce nelle medie statistiche sui ritorni. Infatti, come ricordava Morningstar, il rischio di incappare in un gestore “scadente” aumenta sui fondi poco diversificati, dato che “i portafogli concentrati hanno una gamma più ampia di rendimenti potenziali rispetto alle loro controparti più ampiamente diversificate”. In alcune categorie di fondi, poi, la concentrazione su settori specifici può aumentare il rischio di volatilità.
Trovare il gestore superstar nel suo momento magico, come poteva essere Cathie Wood e il suo Arkk a inizio 2020, è soprattutto una questione di fortuna; almeno, questo ribascono i dati. Ma è sempre bello sognare.