Secondo lockdown, le imprese più a rischio

2.9.2020
Tempo di lettura: 3'
Quali settori dovrebbero essere riaperti e in che misura per permettere alla produzione aggregata di sfiorare i livelli pre-lockdown? E cosa accadrebbe nel caso di un'eventuale richiusura dell'economia? Uno studio evidenzia le regioni e le imprese più a rischio. Nord Italia nell'occhio del ciclone
A contribuire maggiormente alla produzione aggregata italiana risultano settori quali le costruzioni, il commercio all'ingrosso e al dettaglio, i trasporti e il magazzinaggio
Molte imprese hanno operato al di sotto della soglia del 60% durante il lockdown
La Lombardia contribuisce al 20% della produzione italiana
Cosa succederebbe in caso di una seconda raffica di contagi che potrebbe costringere a un nuovo blocco dell'attività economica? Quali potrebbero essere i settori e le regioni più a rischio? Secondo lo studio Lockdown, dinamiche regionali e settoriali diffuso da lavoce.info e realizzato per la taskforce del ministro per l'Innovazione tecnologica e la digitalizzazione, per rispondere a queste domande bisogna partire da due presupposti: l'asimmetrica distribuzione delle attività economiche in Italia e la forte connessione e integrazione tra sistemi produttivi.
Utilizzando le matrici input-output regionali e settoriali dell'Irpet (Istituto regionale programmazione economica Toscana), gli studiosi hanno assunto come ipotesi iniziale la completa chiusura dell'attività economica e hanno considerato una riapertura a stadi: un primo stadio relativo alla produzione diretta necessaria a soddisfare la domanda di beni e servizi finali, e stadi successivi che includono anche “i fabbisogni indiretti derivanti dagli ordini di beni e servizi intermedi lungo la catena del valore”, si legge nello studio. Dopodiché hanno cercato di definire quali settori dovrebbero essere riaperti e in che misura per permettere alla produzione aggregata di sfiorare nuovamente i livelli pre-lockdown e quello che è emerso è che quasi tutti i settori dovrebbero operare a una percentuale compresa tra il 60 e il 90%.
A contribuire maggiormente alla produzione, sia in via diretta che indiretta, risultano in particolare le costruzioni, il commercio all'ingrosso e al dettaglio, i trasporti e il magazzinaggio. Al contrario, i servizi di alloggio e ristorazione “contribuiscono solo per il 3%, anche considerando gli effetti indiretti”. Nel manifatturiero, invece, escludendo il comparto agro-alimentare, i contributi maggiori derivano dalla produzione dei veicoli, dalla siderurgia e dal settore chimico. E quella che viene definita “percentuale di riattivazione” è particolarmente alta nel settore delle costruzioni (circa il 90%) e cala al 60% nel commercio e nei trasporti, nell'agro-alimentare, nella produzione di macchinari e veicoli, e nella riparazione di macchinari.
A contribuire maggiormente alla produzione, sia in via diretta che indiretta, risultano in particolare le costruzioni, il commercio all'ingrosso e al dettaglio, i trasporti e il magazzinaggio. Al contrario, i servizi di alloggio e ristorazione “contribuiscono solo per il 3%, anche considerando gli effetti indiretti”. Nel manifatturiero, invece, escludendo il comparto agro-alimentare, i contributi maggiori derivano dalla produzione dei veicoli, dalla siderurgia e dal settore chimico. E quella che viene definita “percentuale di riattivazione” è particolarmente alta nel settore delle costruzioni (circa il 90%) e cala al 60% nel commercio e nei trasporti, nell'agro-alimentare, nella produzione di macchinari e veicoli, e nella riparazione di macchinari.
“Questi risultati – spiegano i ricercatori – mettono in luce il forte grado di interdipendenza settoriale nell'economia italiana e indicano come sia impossibile immaginare la riapertura (o una nuova chiusura) parziale delle attività economiche se si vogliono evitare forti cadute della produzione”. Se molte imprese hanno dunque operato al di sotto della soglia del 60% nei mesi più caldi della pandemia, il recupero “dell'attività economica ai livelli precedenti la crisi richiede che tutti i settori dell'economia italiana possano operare quasi a pieno regime”.
Se poi si considera la divisione regionale, la situazione risulta essere ulteriormente esacerbata. Solo la Lombardia, una delle regioni più colpite dallo shock pandemico, contribuisce al 20% della produzione totale italiana. Insieme a Piemonte, Veneto ed Emilia-Romagna si tocca il 51%. Sul fronte opposto si posizionano le regioni dell'Italia Centrale, insieme a Basilicata e Calabria, che fornirebbero uno scarso contributo all'attività economica. Se si considera che l'esplosione iniziale del virus ha riguardato prevalentemente le regioni del settentrione, buona parte del sistema produttivo italiano risulta intaccato. “È necessario quindi fare tutto il possibile per contrastare l'epidemia e mettere in sicurezza i lavoratori per poter riaprire le regioni chiave per evitare ulteriori cadute dell'attività economica italiana”, continuano i ricercatori.
Conclusione che ben si sposa anche con i risultati relativi all'export, che nell'ultimo anno ha superato la quota di 560 miliardi pari al 31,6% del prodotto interno lordo italiano. Gli studiosi si sono focalizzati in particolare sul mercato tedesco e quello statunitense e hanno evidenziato come, anche in questo caso, la domanda della Germania coinvolge soprattutto le regioni del settentrione e alcune località dell'Italia centrale, e lo stesso vale per gli Stati Uniti che si rivolgono principalmente a Toscana, Emilia-Romagna e Piemonte. La domanda estera che proviene da questi due paesi, spiegano, contribuisce a circa il 5% della produzione italiana. Volendo riattivare e mantenere costante livello e composizione dell'export verso i nostri principali partner commerciali bisognerebbe dunque coinvolgere un numero di operai italiani complessivo pari a 140mila unità (65mila per la Germania e 75mila per gli Stati Uniti), meno dell'1% dell'occupazione totale.
In definitiva per salvaguardare l'attività economica, nella prospettiva di un secondo lockdown, quasi tutti i settori dovrebbero poter operare a un regime superiore al 50% ed è necessario che le regioni più attive siano quelle del settentrione, anche se – precisano i ricercatori – “queste conclusioni, oltre a non considerare il rischio di esposizione al virus dei lavoratori dipendenti, non tengono conto dei bisogni delle famiglie in termini di beni e servizi finali, o la domanda proveniente da mercati specifici”.
La Lombardia contribuisce al 20% della produzione italiana
Se poi si considera la divisione regionale, la situazione risulta essere ulteriormente esacerbata. Solo la Lombardia, una delle regioni più colpite dallo shock pandemico, contribuisce al 20% della produzione totale italiana. Insieme a Piemonte, Veneto ed Emilia-Romagna si tocca il 51%. Sul fronte opposto si posizionano le regioni dell'Italia Centrale, insieme a Basilicata e Calabria, che fornirebbero uno scarso contributo all'attività economica. Se si considera che l'esplosione iniziale del virus ha riguardato prevalentemente le regioni del settentrione, buona parte del sistema produttivo italiano risulta intaccato. “È necessario quindi fare tutto il possibile per contrastare l'epidemia e mettere in sicurezza i lavoratori per poter riaprire le regioni chiave per evitare ulteriori cadute dell'attività economica italiana”, continuano i ricercatori.
L'export supera quota 560 miliardi
Conclusione che ben si sposa anche con i risultati relativi all'export, che nell'ultimo anno ha superato la quota di 560 miliardi pari al 31,6% del prodotto interno lordo italiano. Gli studiosi si sono focalizzati in particolare sul mercato tedesco e quello statunitense e hanno evidenziato come, anche in questo caso, la domanda della Germania coinvolge soprattutto le regioni del settentrione e alcune località dell'Italia centrale, e lo stesso vale per gli Stati Uniti che si rivolgono principalmente a Toscana, Emilia-Romagna e Piemonte. La domanda estera che proviene da questi due paesi, spiegano, contribuisce a circa il 5% della produzione italiana. Volendo riattivare e mantenere costante livello e composizione dell'export verso i nostri principali partner commerciali bisognerebbe dunque coinvolgere un numero di operai italiani complessivo pari a 140mila unità (65mila per la Germania e 75mila per gli Stati Uniti), meno dell'1% dell'occupazione totale.
In definitiva per salvaguardare l'attività economica, nella prospettiva di un secondo lockdown, quasi tutti i settori dovrebbero poter operare a un regime superiore al 50% ed è necessario che le regioni più attive siano quelle del settentrione, anche se – precisano i ricercatori – “queste conclusioni, oltre a non considerare il rischio di esposizione al virus dei lavoratori dipendenti, non tengono conto dei bisogni delle famiglie in termini di beni e servizi finali, o la domanda proveniente da mercati specifici”.