Le scintille c’erano già da tempo, ma fino al giorno delle fiamme sugli impianti, le tendenze di mercato erano addirittura ribassiste. Gli incidenti di sabato 14 settembre 2019 hanno invece fatto riposizionare gli investitori su tendenze opposte
Saudi Aramco però, dovrebbe ripristinare rapidamente circa il 70% dell’output di 5,7 milioni di barili giornalieri. Un respiro di sollievo alla luce dell’andamento delle quotazioni di lunedì 16 settembre, primo giorno di scambi dopo gli attacchi ai pozzi di petrolio, in salita del 15%
Alcuni salutano il possibile ritorno della tanto attesa “inflazione obiettivo”. Fra breve si vedrà cosa ne pensa la Fed. Secondo Beth Ann Bovino di S&P Global Ratings, sarà difficile che la Fed riduca ulteriormente i tassi d’interesse
I paesi avanzati oggi sono meno vulnerabili che in passato all’andamento dei prezzi del petrolio. E l’inflazione per loro è troppo bassa per costituire una seria preoccupazione. Oggi, i paesi più vulnerabili in tal senso sono Turchia e Argentina. E la Cina? Il Dragone ha fame di fuoco
Petrolio sotto attacco: tutto da riscrivere
Il fuoco degli ultimi attacchi al più grande impianto al mondo di lavorazione del greggio in Arabia Saudita (Abqaiq) ha colto di sorpresa gli investitori. Le scintille c’erano già da tempo (attacchi dei ribelli yemeniti, danni alle petroliere nello Stretto di Hormuz e nel Golfo dell’Oman), ma fino al giorno delle fiamme sugli impianti, le tendenze di mercato erano addirittura ribassiste. In seguito alle dimissioni del consigliere nazionale per la sicurezza Usa John Bolton infatti, si sperava in un’abolizione del divieto di importazione del petrolio greggio dall’Iran. Tutto da riscrivere. Gli incidenti di sabato 14 settembre 2019 hanno invece fatto riposizionare gli investitori su tendenze opposte.
I mercati, in chiusura: un respiro di sollievo
Sul fronte mercati si rileva però in chiusura di seduta (17/09/2019) che il prezzo del petrolio tratta in calo di circa il 6%. Secondo alcune indiscrezioni infatti, i normali livelli di produzione di greggio da parte dell’Arabia Saudita dovrebbero riprendere prima di quanto previsto. In particolare, Saudi Aramco, la compagnia petrolifera statale del Regno, dovrebbe ripristinare rapidamente circa il 70% dell’output di 5,7 milioni di barili giornalieri. Un respiro di sollievo alla luce dell’andamento delle quotazioni di lunedì 16 settembre, primo giorno di scambi dopo gli attacchi ai pozzi di petrolio, in salita del 15%. Niente di nuovo sotto il sole, come afferma Steven Wieting di Citi. “Gli eventi geopolitici hanno una tendenza storica di esagerato impatto iniziale sui mercati, mentre dopo un primo momento il loro effetto è minore“.
“Se i sauditi saranno in grado di riportare la piena produzione entro pochi giorni, l’attuale rally dei prezzi scomparirà e sarà visto solo come una prova di stress sulla volatilità dei mercati energetici”. E’ la conferma di Michel Salden, senior portfolio manager di Vontobel Asset Management.
Petrolio: le conseguenze dell’attacco, parte prima
Così, “le materie prime stanno diventando più attraenti” in seguito agli “attacchi alle installazioni petrolifere saudite”, afferma Trevor Greetham, economista di Royal London Asset Management. Le azioni dal canto loro “potrebbero registrare un sell-off nel breve termine se le tensioni in Medio Oriente dovessero aumentare ulteriormente”. L’analista poi commenta che “L’inflazione è bassa e le banche centrali probabilmente continueranno ad allentare la politica monetaria anche se i prezzi del petrolio aumenteranno ulteriormente”. Il che “dovrebbe significare che la crescita globale riprenderà nel 2020“.
L’inflazione obiettivo: un miraggio nel deserto saudita?
Per High Frequency Economics “lo shock petrolifero non è stato così terribile per l’economia globale finora”. Il motivo è che “il rialzo dei prezzi del petrolio potrebbe spingere l’inflazione verso l’alto”. Il greggio è salito di oltre 8 dollari al barile a seguito dell’attacco del 14 settembre. La società prevede che questo aumento indurrà un aumento dei prezzi dei prodotti energetici di consumo i quali nelle economie avanzate rappresentano il 3-4% del Pil. “L’impatto sull’indice dei prezzi al consumo sarà un aumento di 0,2-0,3 punti percentuali”, dice il capo economista di High Frequency Economics, Carl Weinberg. Buone notizie sul fronte della così irraggiungibile “inflazione obiettivo”, quindi? No. Questo rialzo “non sarà sufficiente a riportare l’inflazione ai livelli target” né in Europa né in Giappone. E sarà troppo ridotto per accrescere le preoccupazioni delle altre Banche centrali”.
Cosa farà la Fed?
Vedremo se la penserà così anche la Fed nella riunione de 18 settembre 2019. Secondo Beth Ann Bovino di S&P Global Ratings, sarà difficile che la Fed riduca ulteriormente i tassi d’interesse. “Il mercato sta prezzando una probabilità del 36,5% che la Banca centrale americana decida di non agire, a fronte del 7,7% di una settimana fa”. Ken Orchard di T. Rowe Price afferma invece che “Un’azione aggressiva da parte della Federal Reserve è necessaria per far sì che la crescita globale abbia un nuovo slancio, in quanto non esiste nessun’altra istituzione che abbia la disponibilità e la capacità di stimolare l’economia mondiale”.
Petrolio: le conseguenze dell’attacco, parte seconda
Per altri invece, il picco dei prezzi non poteva giungere in un momento meno opportuno. La pensa così ad esempio Jennifer McKeown di Capital Economics, la quale si preoccupa delle nubi che in generale si profilano all’orizzonte. Perché, come sempre, bastano le aspettative a destabilizzare i mercati.
Il ciclo economico è in chiusura, con avvisaglie di recessione da più parti, e la guerra tech e doganale fra Usa e Cina è ben lungi dal risolversi. Certo, è possibile aumentare la produzione e dare fondo alle scorte. Ma alcuni paesi sono più esposti di altri, e le aumentate tensioni geopolitiche appesantiranno le incertezze che già gravano sul contesto attuale. Holger Schmieding, economista di Berenberg rileva – così come riportato dal Financial Times – che un aumento di dieci euro al barile fa salire l’inflazione europea dello 0,3%. Una misura forse lieve, ma che in questi tempi di rallentamento della crescita può essere il discrimine fra stagnazione e recessione vera e propria. Il riferimento esplicito è ad Italia e Germania. I consumi attuali però sono meno sensibili agli aumenti del prezzo del petrolio che in passato.
La stessa Bce lo scorso anno diceva che i prezzi al barile (75 dollari allora, 65 oggi) avrebbero avuto scarso impatto sui redditi reali e i consumi. I paesi più vulnerabili oggi sono Turchia e Argentina, che non possono permettersi nemmeno un aumento temporaneo dell’inflazione.
Usa e Cina
E gli Usa? Là, i prezzi al consumo hanno storicamente sofferto ogni aumento di prezzo del carburante. Perciò, il Paese ha accantonato scorte di greggio fin dagli anni Settanta, rendendosi meno vulnerabile ai picchi di prezzo. Anche Didier Saint-Georges, managing director e membro del Comitato Investimenti di Carmignac sottolinea questo punto: la disponibilità strategica di scorte Usa è tale da appianare ogni rischio di breve periodo. La Cina invece no. Il Dragone ha fame di fuoco, è un importatore netto di petrolio. Il contagio di un forte rallentamento economico del Paese di Mezzo si estenderebbe subito a tutti i suoi partner commerciali e alle economie collegate.
Il commento di Gian Maria Gros-Pietro, presidente di Intesa Sanpaolo
“Personalmente quello che è accaduto finora non mi pare che possa far pensare di per sé a una riduzione stabile della fornitura di greggio e anche di raffinati”. Lo ha detto il presidente di Intesa Sanpaolo a margine della presentazione del libro “Cha ching, l’arte del rispamio”. Secondo Gros-Pietro, “molto dipenderà dalla rapidità con la quale l’ impianto verrà riparato”, ma “non è l’unico grande impianto al mondo”. Per questo motivo, “ci sarà una temporanea diversione dei flussi” con altri produttori che “potranno parzialmente compensare la riduzione dei flussi dall’Arabia Saudita, che però rimane un grandissimo produttore”. La storia insegna che “forti incrementi del prezzo del petrolio solitamente hanno determinato rallentamenti nella crescita” se non recessione. In questo caso però bisogna preoccuparsi per gli effetti solo “se l’impennata dei prezzi del petrolio fosse rilevante e duratura”.