Prima il riconoscimento di Jerome Powell sul processo disinflazionistico avviato, poi i nuovi dati sul mercato del lavoro statunitense, hanno offerto ulteriori segnali di conforto sullo stato di salute dell’economia americana. Il dato sui non-farm payroll di gennaio hanno mostrato un incremento di 517mila posti di lavoro contro i 187mila previsti: un risultato che ha sbriciolato le attese e che ha contribuito a riportare il tasso di disoccupazione al 3,4% – il minimo da 53 anni. La cattiva notizia, per la politica monetaria e la lotta all’inflazione, è che la forza contrattuale dei lavoratori potrebbe sostenere la crescita dei salari e alimentare una crescita persistente dell’inflazione di fondo, in particolare, della componente legata ai servizi, che è influenzata molto dal costo del lavoro e meno da altri fattori come il costo dei beni importati.
A pochi giorni dal rialzo dei tassi da 25 punti base, gli analisti sono abbastanza divisi su quello che potrebbe essere il futuro andamento dell’economia americana e su quella che sarà la reazione della Federal Reserve alla fase successiva.
L’idea che i rialzi dei tassi colpiranno l’economia in ritardo ha spinto Jeremy Siegel, stimato professore della Wharton School, a sostenere che l’economia americana vedrà scendere con decisione sia il Pil sia l’inflazione. Siegel si è detto convinto che nella seconda metà del 2023 la Fed sarà costretta a “grandi” tagli dei tassi. Questo scenario, ha confermato il professore ribadendo le sue previsioni di inizio anno, dovrebbe far concludere le azioni americane con una performance del 10-15% per l’intero 2023.
In conferenza Powell ha bollato come prematura ogni considerazione su una riduzione dei tassi nel 2023 – ma sarebbe stato difficile aspettarsi una presa di posizione differente, in un contesto nel quale i dati sull’inflazione e sulla crescita non mostrano ancora un abbassamento sufficiente. Il tema, però resta nella mente di molti investitori: la Fed taglierà i tassi più avanti nel 2023? E se questa aspettativa si farà via via più forte, le azioni saranno guidate più da questa aspettativa, o dalle conseguenze della recessione sugli utili aziendali?
Secondo gli analisti di Bofa, a pesare di più sarebbero proprio gli elementi negativi. “Alcuni clienti hanno espresso la speranza che, anche se dovesse materializzarsi una recessione, il mercato azionario potrebbe semplicemente guardare oltre, soprattutto se la flessione sarà breve e poco profonda e accompagnata da un nuovo allentamento della Fed”, hanno affermato gli strategist britannici di Bofa in una nota del 3 febbraio, “tuttavia, se la severa stretta monetaria dell’ultimo anno dovesse davvero portare gli Stati Uniti a scivolare in recessione, in linea con le proiezioni dei nostri economisti, riteniamo improbabile che il mercato riesca a evitare un forte ribasso… Prevediamo che l’imminente recessione si tradurrà in un ribasso del 20% per lo Stoxx 600 a entro il secondo trimestre”.
Taglio dei tassi se la situazione si deteriora
“Da diversi mesi i dati macroeconomici evidenziano una tenuta del ciclo anche se gli indicatori leading, e la dinamica della curva dei rendimenti, segnalano un forte rallentamento all’orizzonte. Detto questo, spesso si dimentica che, quando le banche centrali arrivano a tagliare i tassi, ciò avviene a fronte di una situazione oramai profondamente deteriorata”, ha dichiarato a We Wealth Edoardo Fusco Femiano, fondatore di DLD Capital Scf e consulente finanziario, “in 100 anni di storia dell’S&P 500 i minimi di periodo dell’indice sono stati raggiunti solo dopo un taglio dei tassi”. Pensare di aver già raggiunto il fondo del mercato, nella fase attuale, sarebbe un’anomalia storica.
Nonostante lo scenario dei tagli appaia ancora subordinato a fenomeni che si devono ancora verificare (recessione e forte disinflazione), potrebbe essere un momento propizio per aumentare l’esposizione sui titoli growth, quelli più sensibili al futuro andamento dei tassi – considerando che i rialzi sono prossimi a concludersi negli Stati Uniti. “Probabilmente, in un contesto di politica monetaria espansiva, il comparto growth è quello che potrebbe beneficiare maggiormente, in primis per la sua diretta correlazione con la liquidità presente sui mercati e, secondariamente, in ragione del fatto che già oggi molti titoli hanno perso in media il 70% dai massimi di gennaio 2022 e sono già oggi sotto pressione”, ha dichiarato Fusco Femiano. La preferenza per il growth sul value è condivisa anche da BofA.
E sull’obbligazionario sarebbe già finita la prospettiva di nuovi cali di prezzo (e aumento dei rendimenti)? Le mosse di mercato sembrerebbero suggerire proprio questo, ma i credit analyst di Bank of America sono di un altro avviso: “Il rischio maggiore ora? La tracotanza. La storia dice che i mercati obbligazionari non dovrebbero mai fare un rally prima dell’ultimo rialzo, poiché il rischio di eventi creditizi e “scosse di assestamento” permane quando la politica monetaria si inasprisce rapidamente (si pensi ai default delle telco nel 2002, ecc.). Oggi, l’impennata dei fallimenti svedesi e il malessere del settore immobiliare britannico ci ricordano che aumentare i tassi non è un’impresa facile”.