La legge Golfo-Mosca sulle quote rosa è stata utile per aumentare la presenza del sesso meno rappresentato nei cda, ma non ha prodotto l’attesa ondata di sviluppo en rose ai livelli inferiori
Alle donne serve welfare, serve che siano indirizzate fin da piccole allo studio delle materie Stem e serve soprattutto che si abbandoni ogni pregiudizio. Perché non facciano più notizia quelle che ce le fanno
È qualcosa su cui dovremmo riflettere: le quote rosa – che fanno storcere il naso alle donne stesse – non dovrebbero essere un regalo a qualcuno, ma una miccia che scatena un’esplosione. E l’esplosione va stimolata, quando la realtà si perpetua uguale a sé stessa e ignora anche i fatti.
Fatti come che le donne sono più brave degli uomini negli studi (e spesso sul lavoro) ma continuano a essere sottooccupate, ad avere stipendi più bassi a parità di mansione e fanno fatica a emergere per via di percorsi discontinui. Anzi, le carriere vengono spesso interrotte per sempre con la nascita del primo figlio. Per ognuna delle affermazioni di cui sopra esistono misure precise di altrettanti studi.
Che sia un problema lo sappiamo da sempre e la politica si straccia le vesti, ma soluzioni concrete poi ne porta poche. Oggi, che all’inclusione femminile sono dedicati interi capitoli del Pnrr e persino uno dei 17 goals di investimento sostenibile dell’Onu, l’obiettivo 5, potremmo avere di fronte un’occasione decisiva.
Ma bisogna correre perché non diventi l’ennesima occasione persa.
Bisogna correre anche perché, come sappiamo, la pandemia ha allungato i tempi – già biblici – che sono necessari per raggiungere globalmente la parità di genere: 135,6 anni, contro i 99,5 del 2019 secondo l’ultimo Global Gender Gap del World Economic Forum. Ma se guardiamo al solo gap economico, gli anni diventano 267,6. E secondo il rapporto di Oxfam sulle disuguaglianze, il Covid ha fatto sì che dal mondo del lavoro mondiale uscissero 13 milioni di donne rispetto al 2019.
Bisogna correre in Italia, che in termini di occupazione e divario salariale è fanalino di coda in Europa. Nel sottoindice relativo a partecipazione ed opportunità economiche del già citato Global Gender Gap le donne italiane sono al 114esimo posto su 156.
Ma se in termini di partecipazione al mondo del lavoro esiste un gap del 25% (il tasso di occupazione femminile è del 56,5%, uno dei peggiori d’Europa), fa specie che, per ogni 100 maschi iscritti all’università ci siano 135 femmine. Ovvero, siamo tra gli ultimi in termini di tasso di occupazione femminile in Occidente e siamo al primo posto, nel mondo, in termini di inclusione nella formazione terziaria: insomma abbiamo un tesoro che ci consentirebbe di vivere di rendita ma preferiamo campare di stenti e lasciarlo in cassaforte.
È esattamente quello che accade: il Pil italiano – al netto della pandemia – cresce da venti anni a suon di zero virgola. Secondo l’agenzia europea Eurofund, la sotto-occupazione femminile ci costa invece il 5,7% del Pil ed eliminando il gap occupazionale esso crescerebbe dell’11%. Ogni donna che non lavora per tutta la sua vita è un valore perso stimabile tra 1,2 e 2 milioni di euro.
Ma le soluzioni esistono e sono anche banali: la stessa Agenzia europea le individua innanzitutto in adeguate politiche di welfare – non è un mistero che le donne siano le maggiori depositarie del lavoro di cura di figli piccoli e genitori anziani. Un altro problema è che per un gender bias sedimentato nei decenni le femmine non vengano indirizzate verso materie tecniche, le famose Stem che il mondo del lavoro brama come l’aria.
Insomma, sappiamo benissimo cosa fare e ora abbiamo un fiume di risorse da mettere a terra: forse quello che manca, per poter smettere di parlare della questione femminile – perché essa non esista più – è solo una cultura priva di pregiudizi- che smetta di punire quello che una volta era il sesso debole.