La casa che brucia e i pompieri di Francoforte

1.6.2020
Tempo di lettura: 3'
L'emergenza aggrava la necessità di nuovi paradigmi di politica economica. Questa crisi suona la fine dell'austerità fine a se stessa. C'è solo da rimpiangere che ci sia voluto un sommovimento epocale, col suo corollario di morti e tragedie, per convincere i benpensanti che il bilancio pubblico è al servizio dell'economia e non viceversa
In un articolo leggermente profetico pubblicato su queste colonne nel dicembre scorso avevo argomentato, a proposito della Grande recessione del 2008-2009, che questa fu qualcosa di molto più serio di un ‘giù' del ciclo economico. Quando la Grande recessione colpì il pianeta, proprio mentre epocali cambiamenti socio-politici – dalla globalizzazione alla rivoluzione tecnologica, dalle ondate migratorie ai cambiamenti climatici – andavano agitando l'economia e la società, la gente faticò a ritrovare quella bussola che fino allora aiutava a dare senso e significato al proprio vivere.
L'onda lunga di quei cambiamenti è ancora visibile: crescono le diseguaglianze. Il rimescolio dei posti di lavoro innestato da tecnologia e globalizzazione ingenera incertezza e tensioni. E molti abbracciarono quelle ideologie che vanno sotto il nome variegato del populismo. Populismo e diseguaglianze non hanno solo ramificazioni politiche. Hanno anche effetti economici. L'economia rallenta perché l'invidia sociale e l'incertezza sull'avvenire minano le propensioni alla spesa di famiglie e imprese.
Ecco perché, dicevo, avanzano nuovi paradigmi. Malgrado il supporto delle politiche monetarie (vedi i bassi tassi reali, perfino negativi), la crescita rimane insufficiente a fugare il malcontento e le frustrazioni. Avanza allora l'ipotesi che governi e Banche centrali debbano collaborare più strettamente per stimolare un'economia che alcuni credono affetta da ‘stagnazione secolare'. E questa 'collaborazione' fra politica monetaria e politica di bilancio può voler dire anche finanziamento monetario dei deficit pubblici, o 'soldi dall'elicottero'. Un'esigenza resa ancora più pressante dall'emergenza sanitaria che ha spinto l'economia globale in recessione.
Ecco perché, dicevo, avanzano nuovi paradigmi. Malgrado il supporto delle politiche monetarie (vedi i bassi tassi reali, perfino negativi), la crescita rimane insufficiente a fugare il malcontento e le frustrazioni. Avanza allora l'ipotesi che governi e Banche centrali debbano collaborare più strettamente per stimolare un'economia che alcuni credono affetta da ‘stagnazione secolare'. E questa 'collaborazione' fra politica monetaria e politica di bilancio può voler dire anche finanziamento monetario dei deficit pubblici, o 'soldi dall'elicottero'. Un'esigenza resa ancora più pressante dall'emergenza sanitaria che ha spinto l'economia globale in recessione.
Era il 1980, e in un dibattito Robert Lucas jr. (che poi, nel 1995, ebbe il Nobel dell'economia) disse: “Non si può trovare nessun bravo economista di meno di 40 anni che si identifichi come ‘keynesiano'. Nei seminari di ricerca, le teorie keynesiane non vengono più prese sul serio; il pubblico comincia a mormorare e si vedono sorrisetti di sufficienza...”. Sarà, ma quando le cose si mettono male, siamo tutti keynesiani. Nella crisi della Grande recessione, tutti i governi decisero di spendere e spandere, e fu questa la ragione per la quale la recessione non si trasformò in depressione.
La stessa cosa sta succedendo oggi. I pacchetti di aiuti che si stanno approntando in giro per il mondo sono massicci e open-ended. La gente, come ai tempi della Grande recessione, tira in barca i remi della spesa. E oggi la crisi non è solo di domanda, è anche di offerta, e la paura è peggiore, perché, oltre ai soldi, mette in gioco la vita. Questa crisi suona la fine delle politiche di un'austerità fine a se stessa. C'è solo da rimpiangere che ci sia voluto un sommovimento epocale, col suo corollario di morti e tragedie, per convincere i benpensanti che il bilancio pubblico è al servizio dell'economia e non viceversa.
Finito lo sfogo. Ma come giudicare le imponenti misure messe in opera, da una sponda all'altra dell'Atlantico e da una sponda all'altra del Pacifico, per contrastare l'impatto del virus sulle economie? Il giudizio non può essere che positivo, ma con una riserva. Le cifre sono imponenti, e anche coloro che rabbrividiscono al pensiero di quanto aumenterà il debito pubblico di seguito ai trilioni di dollari o di euro messi in campo, non si sono opposti. Hanno capito che, quando la casa brucia, bisogna dare via libera ai pompieri. Ma è proprio sulla questione del debito pubblico che bisognerà che le politiche si diano nuovi orizzonti.
Il finanziamento monetario del deficit pubblico, o – quel che nella sostanza è lo stesso – l'emissione di titoli irredimibili a tasso zero sottoscritta dalla Banca centrale – non fa aumentare il peso ‘reale' del debito pubblico. Certo, questo tipo di finanziamento è vietato dallo statuto della Bce. Un divieto che fu pensato per finanze pubbliche aberranti, non per economie aberranti. Un divieto che non ha più ragione di essere, e che è stato fustigato da un economista (ed ex banchiere centrale della Bank of England) del calibro di Willem Buiter: “La proibizione a tappeto dei prestiti diretti ai governi è una completa idiozia. Questo è quello che devono fare le Banche centrali. Non si deve rinunciare a questo strumento solo perché può essere mal gestito. Si può annegare nell'acqua, ma questo non vuol dire che non potete averne un bicchiere quando avete sete”.
La stessa cosa sta succedendo oggi. I pacchetti di aiuti che si stanno approntando in giro per il mondo sono massicci e open-ended. La gente, come ai tempi della Grande recessione, tira in barca i remi della spesa. E oggi la crisi non è solo di domanda, è anche di offerta, e la paura è peggiore, perché, oltre ai soldi, mette in gioco la vita. Questa crisi suona la fine delle politiche di un'austerità fine a se stessa. C'è solo da rimpiangere che ci sia voluto un sommovimento epocale, col suo corollario di morti e tragedie, per convincere i benpensanti che il bilancio pubblico è al servizio dell'economia e non viceversa.
Finito lo sfogo. Ma come giudicare le imponenti misure messe in opera, da una sponda all'altra dell'Atlantico e da una sponda all'altra del Pacifico, per contrastare l'impatto del virus sulle economie? Il giudizio non può essere che positivo, ma con una riserva. Le cifre sono imponenti, e anche coloro che rabbrividiscono al pensiero di quanto aumenterà il debito pubblico di seguito ai trilioni di dollari o di euro messi in campo, non si sono opposti. Hanno capito che, quando la casa brucia, bisogna dare via libera ai pompieri. Ma è proprio sulla questione del debito pubblico che bisognerà che le politiche si diano nuovi orizzonti.
Il finanziamento monetario del deficit pubblico, o – quel che nella sostanza è lo stesso – l'emissione di titoli irredimibili a tasso zero sottoscritta dalla Banca centrale – non fa aumentare il peso ‘reale' del debito pubblico. Certo, questo tipo di finanziamento è vietato dallo statuto della Bce. Un divieto che fu pensato per finanze pubbliche aberranti, non per economie aberranti. Un divieto che non ha più ragione di essere, e che è stato fustigato da un economista (ed ex banchiere centrale della Bank of England) del calibro di Willem Buiter: “La proibizione a tappeto dei prestiti diretti ai governi è una completa idiozia. Questo è quello che devono fare le Banche centrali. Non si deve rinunciare a questo strumento solo perché può essere mal gestito. Si può annegare nell'acqua, ma questo non vuol dire che non potete averne un bicchiere quando avete sete”.