Patent box: cambiano le regole sulle spese per i software

Su queste colonne ho già avuto modo di sottolineare quale grande occasione di “progresso imprenditoriale” sia stata persa scegliendo di riformare (di fatto, abolire) la disciplina agevolativa fiscale che andava sotto il nome di “patent box”: una detassazione degli utili societari legata agli investimenti effettuati in ricerca e sviluppo su determinati beni (brevetti, software, know-how e, originariamente, anche marchi).
Una detassazione tanto più elevata quanto maggiori erano i risultati aziendali, innescando di fatto un processo qualitativo, oltre che quantitativo (meglio spendo in ricerca e sviluppo, migliorando i risultati reddituali, più risparmio fiscale ottengo).
Il cambio di approccio del
legislatore fiscale sulla patent box
Il legislatore fiscale ha deciso di abbandonare questo approccio “revenue driven” per abbracciarne uno “cost driven”, il quale rischia di rendere la nuova “patent box” un duplicato dell’agevolazione, delle spese di ricerca e sviluppo (anch’essa rimaneggiata nel tempo, e oggetto attualmente di un meccanismo di restituzione per coloro che se ne sono avvalsi in modo troppo disinvolto).
Come, peraltro, già fatto in numerose altre occasioni, è attualmente in corso di discussione una bozza di circolare dell’Agenzia delle entrate, la quale, assai apprezzabilmente, raccoglie i contributi degli operatori economici per migliorare/emendare quanto contenuto nella bozza stessa, soprattutto alla luce, si deve ritenere, delle concrete applicazioni che determinate interpretazioni possono assumere nei singoli settori, o, addirittura, in capo a singoli contribuenti.
La posizione dell’Agenzia delle entrate sul software
In quest’ottica, come già osservato, ritengo utile ribadire in questa sede che sul software l’Agenzia ha assunto una posizione che potrebbe rivelarsi “fatale” per il destino della nuova “patent box” applicata a tale tipologia di bene.
Benché il software sia coperto (in Italia) dal diritto d’autore (alla stessa stregua di un romanzo o di una canzone) e che tale diritto sorga per effetto dell’atto creativo originale (in soldoni, basta non copiare), l’amministrazione finanziaria, pur in assenza di alcun obbligo normativo, intenderebbe condizionare l’agevolazione in parola all’avvenuta registrazione del bene presso la Siae.
Non v’è dubbio che l’intervento di una “authority” esterna conferisca maggior certezza e imparzialità, consentendo di combattere eventuali abusi (quando un software può dirsi “creato”? senza considerare, poi, che un software ben funzionante è, di fatto, una sorta di “fabbrica del duomo”).
Tuttavia, ci sono due motivi che rendono impraticabile la registrazione: il primo attiene alla riservatezza dei dati (per alcune imprese strategiche – ad esempio, nel settore dei pagamenti – il software non può mai uscire dai confini aziendali); il secondo concerne la “trasportabilità” dei dati: alcuni software occupano talmente tanto “spazio” che la Siae dovrebbe dotarsi di notevoli infrastrutture tecnologiche per garantire l’acquisizione e la registrazione dei beni in questione.
La soluzione? Affidarsi a un sistema di certificazione interna alle aziende, come ad esempio le marche temporali (già adottate nel settore tributario), attestanti il momento il cui il “codice sorgente” è stato ultimato (o, quanto meno, ritenuto tale).
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