La materia dei servizi di investimento è tra le più “gettonate” per le “class action”: queste, essendo per stessa denominazione azioni di categoria – non di classe che in Italia e soprattutto in italiano ha tutt’altro significato – trovano campo privilegiato in una materia dove gli investimenti sono destinati, con differenziazione per tipologia, a investitori con caratteristiche, relative agli investimenti, omogenee.
Gli investimenti finanziari e il rischio
Infatti, gli investimenti finanziari si dividono in:
a) monetari;
b) obbligazionari;
c) azionari;
d) derivati e prodotti speculativi in generale.
La differenziazione è in funzione (crescente) del rischio: a dir la verità, la situazione è più complessa, perché la storia finanziaria dimostra che il rischio di una categoria iniziale può essere più alto di quella di una categoria successiva.
Il discorso si esalta nella categoria sub d), dove il rischio è alto solo se il prodotto è puramente speculativo, il che non è automatico nemmeno nei derivati, i quali, essendo determinati “per relationem” a un’entità esterna al contratto, sono speculativi o no a seconda che entità speculari siano o no presenti nel portafoglio del cliente. Basti pensare ai prodotti strutturati, obbligazionari con componente derivativa, il cui rischio è alto solo per tale componente, e quindi nel complesso contenuto.
È conseguentemente più corretto denominarli in altro modo: si è fatto utilizzo del termine di “prodotti complessi”, il che peraltro non spiega la loro essenza.
Lo scrivente ha utilizzato il termine di “prodotti atipici”, nel senso non che essi non rientrano in tipi determinati, ma che rientrano in un tipo del tutto speciale, totalmente non riconducibile a tutti gli altri tipi, vale a dire caratterizzato dall’assenza di causa, esterna al contratto e non recuperabile mai – a differenza dei titoli di credito con le azioni causali.
Con tutte queste puntualizzazioni, la differenza per categorie di rischio assolve alla funzione di cogliere un’importante – anche se non esaustiva – caratterizzazione.
Da ciò non si può peraltro trarre la conclusione dell’automatica suddivisione dei relativi investitori in categorie omogenee, da cui far proporre le “class action”. Tale conclusione sembra non solo necessaria, ma addirittura “naturaliter data”, e invece non è così.
E ciò perché la caratterizzazione è di natura economica, non sussumibile automaticamente nell’ambito giuridico.
E ciò per due ragioni.
Da un lato la differenziazione per categorie deriva dal profilo di rischio, che è un elemento soggettivo. Ciò tenendo presente che la disciplina del settore è evoluta dalla centralità di una logica collettiva degli investimenti – sollecitazione al pubblico risparmio – alla centralità di una logica individuale – servizi di investimento, con operazioni specifiche per ciascun cliente.
Anche dove gli investimenti sono omogenei per categoria (fondi comuni di investimento), il profilo assorbente è quello della scelta dell’investimento.
Dall’altro, la giurisprudenza ha ristretto i casi di nullità a un ambito marginale, a favore dei profili di rispetto del rischio, in un’ottica di vizi della volontà – e di annullamento-, che fa saltare la logica di categoria, e a una di responsabilità contrattuale o extra-contrattuale (ivi compresa quella pre-contrattuale), la quale coinvolge l’andamento dell’investimento solo in casi macroscopici, essendo l’alea dell’investimento in capo all’investitore – che usufruisce dei relativi benefici, a differenza dei depositanti in banca, che hanno diritto alla restituzione del “tantundem” maggiorato di interessi ad un tasso predeterminato.
E così la gestione dell’investimento è negligente solo in casi macroscopici, come ogni gestione imprenditoriale.
La categoria può essere recuperata esclusivamente se si mette in discussione il prodotto non per la sua conformità al profilo di rischio del cliente, ma per le sue caratteristiche oggettive, che lo rendano affetto da nullità, il ricorso alla quale è come visto escluso se non in casi straordinari – investimenti proposti in Italia da intermediari abusivi.
Allora occorre un cambio radicale di paradigma.
Occorre partire dalla distinzione per categoria, che è di natura economica e che proprio per questo è essenziale per far emergere l’essenza del risparmio, dalla tutela costituzionale (art. 47), quale fattore decisivo dell’economia che esso alimenta in continuazione, proprio in quanto reddito non speso.
Dalla distinzione per categoria economica alla rilevanza giuridica
Il nodo decisivo è così rappresentato dal passare dalla distinzione economica alla sua rilevanza giuridica in senso non soggettivo, ma oggettivo, di emersione della funzione concreta di investimento immanente ai contratti.
Conseguentemente occorre accertare se i singoli contratti siano astrattamente – e salvo andamento dei mercati, che è un’alea ineliminabile – in grado di rispettare la funzione e l’essenza delle categorie dei rischi, e in particolare se:
a) i rischi siano ragionevoli e di spettanza degli investitori e non trasferiti loro arbitrariamente dall’intermediario o da soggetti ad esso collegati;
b) i vantaggi siano correlati ai rischi.
Due esemplificazioni concrete
In primo luogo, negli strumenti derivati, la ripartizione dei rischi e dei vantaggi, esterna al contratto e quindi non ponderabile, è ragionevole?
In altri termini, i risparmiatori, di fronte a rischi alti, possono beneficiare effettivamente, sia pur solo in potenza, di vantaggi alti?
Di qui la valutazione probabilistica, imprescindibile, per verificare “ex ante” se le probabilità di risultati positivi siano effettive e per riscontrare l’esito “ex post”.
La Corte di Cassazione ha recentemente colto tale punto, sollevato da economisti e da alcuni giuristi, tra cui lo scrivente, ma lo ha riportato all’oggetto del contratto invece che alla causa concreta.
In secondo luogo, il “convertendo” di obbligazioni in azioni, in cui la conversione è rimessa non alla scelta dei risparmiatori ma a quella dell’emittente, vincolante per gli stessi. Qui, contrariamente a quanto sostenuto da autorevole economista, la valutazione probabilistica non ha senso, in quanto nelle obbligazioni si concretizzerebbe nel valutare la probabilità di “default” e quindi si risolverebbe in un duplicato del “rating” (e, nelle azioni, nella quantificazione delle probabilità di volatilità, il che è per antonomasia impossibile).
Occorre così ricorrere al criterio alternativo: la rinuncia preventiva del sottoscrittore alla scelta – concessagli dalla legge – è compatibile con il principio fondamentale della nostra materia, per cui il risparmiatore deve sempre essere in grado di “uscire” da un contratto? Nel momento in cui lo si assoggetta alla conversione forzosa su iniziativa dell’emittente, è evidente che si entra in un’eccezione accentuatissima al principio.
Nel concreto, occorre evidentemente valutare se la ripartizione di costi e vantaggi sia tale da rendere ragionevole tale eccezione.
Conclusione
In definitiva, ora la normativa dei servizi di investimento non è compatibile con la struttura della “class action”, in quanto, incentrandosi sul rispetto del profilo di rischio, individuale e non omogeneo, fa sì che manchi “in limine” la presenza di “diritti individuali omogenei”, consustanziale alla “class action” (art. 840bis, 1° comma, art. 840octies, c.p.c.).
Con il cambio di paradigma qui proposto, di accertare la funzione concreta dei contratti, con l’effettività delle categorie di investimento, l’emersione dei “diritti individuali omogenei” diventa pressoché automatica. Infatti, il velo, non sempre sincero, della natura individuale e irriducibile dei singoli contratti, verrebbe superato recuperando l’essenza della sollecitazione al pubblico risparmio, con la centralità della proposta seriale dell’intermediario, proposta seriale che è presente anche nei contratti derivati, pur se la narrazione comune si riferisce a contratti calibrati sulle esigenze specifiche di ciascun risparmiatore.
La conclusione non è peraltro completa.
L’accertamento dell’effettività della funzione concreta dei contratti di investimento può comportare elementi di merito con conclusione non univoca, con il correlato rischio di rimettere la decisione delle cause a una consulenza tecnica d’ufficio (Ctu).
Anche al riguardo è necessario un cambio radicale: l’ottica finalizzata attuale, che si risolve nel solo rispetto del profilo del rischio, finisce con il risolversi in introspezioni psicologiche o in parametri meramente formali – come avviene attualmente -, anche a danno degli intermediari, che non poche volte soccombono nelle cause solo per profili formali o di scarsa rilevanza.
Ed allora, la verifica dell’effettività della ripartizione dei rischi e dei vantaggi enunciata in contratto, affinché tale enunciazione non resti solo formale e anzi sacrale, è l’unica in grado di consentire veramente di discriminare tra intermediari corretti e intermediari non corretti.
E su questo punto, dalla Consob possono venire dei criteri generali utili ad assistere il giudice civile nell’analisi, in modo da arrivare a una decisione razionale, economicamente e giuridicamente.
In effetti, il vero elemento che contraddistingue la materia dei servizi di investimento finanziario è che i controlli pubblici non sono relativi ai grandi numeri, restando al di fuori della struttura civilistica, come in materia bancaria e assicurativa, ma penetrano proprio al di dentro di tale struttura civilistica, realizzando un intreccio che può essere, a seconda di come ci si approccia, confusivo o chiarificatore.