Incasso giuridico: la Cassazione cambia orientamento

Roberta Moscaroli
Roberta Moscaroli
12.7.2023
Tempo di lettura: 3'
La rinuncia operata da un socio al credito avente a oggetto degli interessi maturati su finanziamenti erogati nei confronti di una società partecipata non comporta l’obbligo di sottoporne a tassazione il relativo ammontare. Cosa cambia con la recente sentenza della Cassazione

Con la sentenza n. 16595 del 12 giugno 2023, la Corte di Cassazione è intervenuta sull’annoso tema dell’incasso giuridico, per affermare il principio di diritto secondo cui, in tema di imposte sui redditi di capitale, in ragione di quanto previsto dalle disposizioni del Tuir, come modificate a partire dal periodo d’imposta 2016, la rinuncia operata da un socio al credito avente a oggetto interessi maturati su finanziamenti erogati nei confronti di una società partecipata, non comporta l’obbligo di sottoporne a tassazione il relativo ammontare. 

La pronuncia appare innovativa nella misura in cui, escludendo la tesi dell’incasso giuridico, comporta il venir meno dell’obbligo di operare la ritenuta ai sensi dell’art. 26, comma 5, del Dpr n. 600/1973 sugli interessi oggetto di rinuncia, ponendosi in discontinuità con orientamenti giurisprudenziali e di prassi che sembravano ormai consolidati. 


La tesi sul cosiddetto “incasso giuridico” e la sua ratio 

Preliminarmente, occorre ricordare che la tesi del cosiddetto incasso giuridico indica quel principio (o “fictio iuris”) per cui, agli effetti fiscali, un determinato reddito si considera percepito (incassato, appunto) quando l’avente diritto ne abbia comunque disposto (e quindi indipendentemente dalla effettiva erogazione). Il principio è stato enucleato dall’Agenzia delle entrate per la prima volta con riferimento al caso della rinuncia ai crediti operati dai soci nei confronti delle società, ed è stato poi esteso ad altre fattispecie e fatto proprio dalla giurisprudenza.

Va peraltro precisato che l’orientamento in oggetto è stato formulato in relazione agli atti di rinuncia aventi a oggetto crediti relativi a redditi tassati per cassa: e così, secondo l’Agenzia, «la rinuncia ai crediti correlati a redditi che vanno acquisiti a tassazione per cassa (quali, ad esempio, i compensi spettanti agli amministratori e gli interessi relativi a finanziamenti dei soci) presuppone l'avvenuto incasso giuridico del credito e quindi l'obbligo di sottoporre a tassazione il loro ammontare, anche mediante applicazione della ritenuta di imposta» (circolare ministeriale n. 73/1994, in materia di rinunce ai crediti da parte dei soci di società, applicabile ratione temporis). 

E ancora «la rinuncia ai crediti correlati a redditi che vanno acquisiti a tassazione per cassa (quali, ad esempio, i compensi spettanti agli amministratori e gli interessi relativi a finanziamenti dei soci) presuppone l’avvenuto incasso giuridico del credito e quindi l’obbligo di sottoporre a tassazione il loro ammontare, anche mediante applicazione della ritenuta di imposta» (così la risoluzione dell’Agenzia delle entrate n. 124/2017, in risposta a un interpello in materia di rinuncia al Tfm da parte degli amministratori). 

Sotto questo punto di vista, preme sottolineare, infatti, che la tesi in commento (e cioè il principio dell’incasso giuridico) risponde all’esigenza di evitare che, rispetto ai redditi imponibili per cassa, gli atti dispositivi diversi dal pagamento si traducano in un “salto d’imposta” (deduzione-non tassazione). 

Come anticipato, la tesi in commento è stata recepita dalla prevalente giurisprudenza di merito e dalla Corte di Cassazione. Con riferimento a quest’ultima, in particolare, ci si limita a citare alcune pronunce recenti (riguardanti, rispettivamente, la rinuncia, da parte del socio, ad un credito derivante da compensi per royalties: sentenza n. 26842/2014) e la rinuncia, da parte dei soci-amministratori, al rispettivo Tfm (ordinanza n. 1335/2016; ordinanza n. 12222/2022). In tali occasioni, la Cassazione ha chiarito che «la rinuncia del credito da parte del socio costituisce (…) una prestazione che viene ad aumentare il patrimonio della società e può comportare anche l'aumento del valore delle sue quote sociali. In tale contesto, allora, appare corretto ritenere che la rinuncia del credito da parte di un socio sia espressione della volontà di patrimonializzare la società e che, pertanto, non possa essere equiparata alla remissione di un debito da parte di un soggetto estraneo alla compagine sociale. 

In altri termini, la rinuncia presuppone il conseguimento del credito il cui importo, anche se non materialmente incassato, viene comunque "utilizzato", sia pure con atto di disposizione avente natura di rinuncia. Consegue quindi che, in caso di compensi di lavoro autonomo spettanti al socio, la rinuncia operata dal socio medesimo presuppone logicamente la maturazione e il conseguimento del credito vantato, con ineludibile soggezione al regime fiscale conseguente, in capo al socio creditore. Altrimenti operando, si permetterebbe alla società di beneficiare di accantonamenti fiscalmente dedotti nel corso dei singoli periodi di imposta che non scontano alcuna imposizione fiscale, nonostante producano l'effetto ultimo di incrementare il costo della partecipazione e perciò di generare reddito, che finirebbe per rimanere esente da imposizione». 


Il mutato scenario conseguente alla modifica dell’articolo 88 del Tuir

L’orientamento di prassi e giurisprudenziale appena richiamato, tuttavia, era stato messo in discussione dalla dottrina, a seguito della mutata disciplina sulla rinuncia ai crediti da parte dei soci, quale derivante dalle modifiche al Tuir recate dal decreto legislativo n. 147 del 2015, a partire dal 2016. 

 Ci si riferisce, in particolare, alle modifiche, operate dal menzionato decreto, che hanno interessato, inter alia, gli articoli 88, comma 4-bis, 94, comma 6 e 101, comma 7, del Tuir. Secondo il neo-introdotto comma 4-bis dell’articolo 88, la rinuncia dei soci ai crediti si considera sopravvenienza attiva solo per la parte che eccede il relativo valore fiscale. Inoltre, il nuovo testo impone al socio di comunicare il valore del credito alla partecipata mediante apposita dichiarazione sostitutiva di atto notorio; in assenza di comunicazione, il valore assunto è pari a zero, con conseguente tassazione dell'intera rinuncia, fiscalmente qualificata come sopravvenienza attiva. 

Correlativamente, gli articoli 94, comma 6, e 101, comma 7, del Tuir hanno previsto, sul versante del socio, che l'ammontare della rinuncia al credito che si aggiunge al costo della partecipazione è nei limiti del valore fiscale del credito oggetto di rinuncia; che la rinuncia non è ammessa in deduzione e che il relativo ammontare si aggiunge al costo della partecipazione sempre nei limiti del valore fiscalmente riconosciuto del credito. Il regime vigente a decorrere dal 2016, pertanto, pone in correlazione il valore fiscale del credito oggetto di rinuncia e la detassazione, così da impedire, già dal punto di vista sistematico, la possibilità di “salti d’imposta”. 


La Cassazione n. 16595 del 12 giugno 2023 

Sulla questione in commento è intervenuta, da ultimo, la sentenza indicata in premessa, con cui la Suprema Corte, chiamata a pronunciarsi su una rinuncia a finanziamento a favore di Srl operata dal socio (società) lussemburghese, si è conformata all’orientamento emerso in dottrina. Nel caso di specie, il giudizio muoveva dal mancato assoggettamento a ritenuta alla fonte (ex articolo 26, quinto comma, del Dpr n. 600 del 1973) degli interessi maturati sul finanziamento soci, per la parte di essi rinunciata, che l’Agenzia contestava alla società sulla base dell’asserito “incasso giuridico” degli stessi. 

Nella pronuncia citata, la Cassazione, dopo aver operato una ricognizione del trattamento fiscale delle rinunce al credito da parte dei soci prima e dopo le modifiche del decreto legislativo n. 147/2015, ha riconosciuto l’idoneità, del novellato regime, a superare i rischi di asimmetria fiscale esistenti in precedenza, così operando un vero e proprio “revirement” rispetto alle decisioni precedenti. 

La Cassazione, in particolare, ha chiarito quanto segue: «Il nuovo regime (…) ha posto in correlazione il valore fiscale del credito oggetto di rinuncia e la detassazione. A seguito della rinuncia, il socio aumenta il costo della partecipazione solo nei limiti del valore fiscale del credito e la società beneficia di una sopravvenienza non tassabile solo nei limiti di detto valore. Accade, pertanto, che la rinuncia di un credito avente valore fiscale pari a zero, come per i crediti legati ad un reddito tassato per cassa, non incrementa il valore fiscale della partecipazione, diversamente da quanto prospettato nel precedente regime sia dalla Agenzia delle Entrate che da questa Corte a sostegno della teoria dell'incasso giuridico. Di contro, detta rinuncia comporta la tassazione integrale della sopravvenienza attiva in capo alla società partecipata. Le asimmetrie cui la regola dell'incasso giuridico intendeva porre rimedio sono state, pertanto, risolte dal legislatore mutando la disciplina dell'art. 88 Tuir sul versante della società partecipata e degli artt. 94 e 101 sul versante del socio creditore».

La Suprema Corte ne ha quindi fatto derivare il seguente principio di diritto: «In tema di imposte sui redditi di capitale - in ragione di quanto previsto dagli artt. 88, comma 4-bis, 94, comma 6, 101, comma 5, Tuir a seguito delle modifiche di cui all'art. 13 legge 14 settembre 2015, n. 147 - la rinuncia, operata da un socio nei confronti della società, al credito avente ad oggetto interessi maturati su finanziamenti erogati nei confronti di una società partecipata, non comporta l'obbligo di sottoporne a tassazione il relativo ammontare, con applicazione, ai sensi dell'art. 26, quinto comma, del Dpr n. 600 del 1973, della ritenuta fiscale, cui la società è tenuta quale sostituto d'imposta, avendo le nuove disposizioni rimediato all'asimmetria fiscale o “salto d'imposta” di cui al precedente regime».


Ulteriori spunti di riflessione 

Se, dunque, il principio appare innovativo, restano tuttavia da approfondire taluni aspetti concernenti gli effetti dello stesso per tutta una serie di casi, a partire dai finanziamenti concessi da soci non residenti. È il caso, ad esempio, delle rinunce a finanziamenti fruttiferi operate da soggetti residenti in uno Stato membro che, in caso di pagamento degli interessi e di “incasso giuridico” degli stessi, beneficerebbero della cosiddetta “Direttiva interessi e royalty” («Direttiva 2003/49/Ce del Consiglio, del 3 giugno 2003, concernente il regime fiscale comune applicabile ai pagamenti di interessi e di canoni fra società consociate di Stati membri diversi»). 

Ebbene, sulla base del menzionato principio di diritto, da oggi in poi, la rinuncia a detti interessi comporterà: (i) la non applicabilità delle ritenute alla fonte ma anche (ii) l’imponibilità degli stessi in capo alla società beneficiaria. Trattasi di una modifica di impostazione di non poco conto, da tenere in debita considerazione nelle future operazioni di rafforzamento patrimoniale (e nella valutazione degli effetti fiscali di quelle pregresse).

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È partner dello studio legale Dentons, nella sede di Roma. Dottore commercialista e
revisore contabile, si occupa di fiscalità a 360°, pianificazione fiscale, tax ruling e
interpelli, private wealth management, fiscalità dei trust, piani di incentivazione, fiscalità
delle banche, delle assicurazioni e dei Ias/Ifrs Adopter. Segue procedimenti di voluntary
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