Con l’ordinanza del 21 dicembre 2022, C-250/22, la Corte di Giustizia Ue ha dichiarato «manifestamente irricevibile» la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dalla Corte Cassazione, tesa a verificare se il riformulato articolo 20 del dpr n. 131/1986 (Testo unico dell’imposta di registro: cosiddetto Tur) presenti profili di incompatibilità col diritto comunitario, nella parte in cui, ai fini dell’applicazione dell’imposta di registro, esclude la possibilità di considerare elementi di contesto esterni al contratto e quindi, in sostanza, di riqualificare in termini unitari una serie di atti collegati (per esempio: plurime cessioni di beni, soggette ad Iva, che realizzano in realtà una cessione frazionata d’azienda, soggetta a registro).
Si tratta dell’ennesima pronuncia che investe il riformulato articolo 20, che, attesa la rilevanza pratica rivestita, merita di essere esaminata con attenzione.
La riformulazione dell’art. 20 del Tur
In proposito, si ricorda brevemente che la legge di Bilancio 2018 era (è) intervenuta sull’articolo 20 del Tur proprio al fine di superare l’annosa questione della possibile riqualificazione, in termini di cessione di azienda, dello schema negoziale costituito da conferimento di azienda e successiva cessione della partecipazione (schema notoriamente soggetto a una minore tassazione indiretta).
È noto, infatti, come il previgente testo dell’articolo 20 prevedesse che «l’imposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente»; formulazione che, secondo un consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, avrebbe consentito all’amministrazione finanziaria di (ri)qualificare gli atti presentati per la registrazione, applicando l’imposta secondo una “valutazione funzionale” del contesto negoziale ed economico in cui gli stessi atti sono inseriti.
A fronte di incertezze operative sempre più rilevanti e di un contenzioso ormai problematico, la legge di Bilancio 2018 aveva (ha) dunque riformulato il citato testo, sostituendolo con quello corrente, basato sulla considerazione dell’imposta di registro come mera “imposta d’atto”.
Dispone ora l’articolo 20 (nel testo ulteriormente modificato dalla legge di Bilancio 2019) che «l’imposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici dell’atto presentato alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente, sulla base degli elementi desumibili dall’atto medesimo, prescindendo da quelli extratestuali e dagli atti ad esso collegati, salvo quanto disposto dagli articoli successivi».
La Corte Costituzionale prima …
Il testo così riformulato, invero, aveva già superato per ben due volte il vaglio della Corte Costituzionale (cfr. le sentenze n. 158/2020 e n. 39/2021), che ha dichiarato infondata la questione del contrasto tra la novellata disposizione e gli articoli 3 e 53 della Costituzione, specificando che «non è manifestamente arbitrario che il legislatore abbia ribadito la ratio dell’imposta di registro in sostanziale conformità alla sua origine storica di “imposta d’atto” nei sensi sopra precisati, in caso di collegamento negoziale» e che, sul piano costituzionale, «l’interpretazione evolutiva (…) di detto art. 20 del dpr n. 131 del 1986, incentrata sulla nozione di “causa reale”, provocherebbe incoerenze nell’ordinamento, quantomeno a partire dall’introduzione dell’art. 10-bis della legge n. 212 del 2000» (norma generale antiabuso del nostro ordinamento).
…e la Corte di Giustizia poi
A mettere nuovamente in discussione la legittimità del riformulato art. 20, tuttavia, è stata questa volta l’ordinanza della Corte di Cassazione n. 10283/2022, di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione europea.
Nel caso di specie, la controversia atteneva a una cessione plurima di beni (assoggettata ad Iva) ritenuta, dall’Agenzia delle entrate, una cosiddetta “cessione spezzatino”, da riqualificare (e tassare) come cessione d’azienda soggetta a imposta di registro.
Chiamato a giudicare della questione, il giudice a quo ha quindi sollevato la questione se la disciplina comunitaria in materia di Iva osti a una disposizione nazionale come l’art. 20 del Tur «che impone all’amministrazione finanziaria di qualificare l’operazione intercorsa tra le parti esclusivamente sulla base degli elementi testuali contenuti nel contratto con divieto del ricorso ad elementi extratestuali (ancorché essi siano oggettivamente esistenti e provati), derivandone la preclusione assoluta per l’amministrazione finanziaria di provare che la prestazione economica, integrante una cessione d’azienda, in sé indissociabile, è stata in realtà artificialmente scomposta in una pluralità di prestazioni – le plurime cessioni dei beni –, con il conseguente riconoscimento della detrazione Iva in assenza dei requisiti previsti dal diritto dell’Unione (…)».
Come indicato in premessa, l’ordinanza della Corte di Giustizia ha dichiarato la questione «manifestamente irricevibile» e ciò, essenzialmente, in virtù del fatto che l’imposta di registro non costituisce un tributo armonizzato all’interno dell’Unione europea.
La posizione della Corte di Giustizia, d’altra parte, era stata in qualche modo preannunciata dalla più attenta dottrina, che aveva osservato come il giudice a quo fosse incorso nell’equivoco di interpretare il principio di alternatività Iva/registro (art. 40 del Tur) come complementarità delle due imposte e di ravvisare pertanto nell’articolo 20 del Tur il “fondamento” del potere, per l’Agenzia, di operare contestazioni rilevanti (anche) ai fini dell’Iva.
Conclusioni
La pronuncia della Corte di Giustizia Ue costituisce un altro importante tassello utile a definire la portata dell’articolo 20 del Tur, che, nonostante i recenti interventi legislativi volti a chiarirne l’applicazione, continua ad alimentare il contenzioso tributario.
Il principio dell’autonomia dei due tributi (registro ed Iva), peraltro, potrebbe portare, altresì, a ripensare le conseguenze sanzionatorie degli eventuali giudizi di “abusività” delle cessioni di beni riqualificabili come cessioni d’azienda, ritenendosi infatti che l’eventuale giudizio di abuso, se esistente, debba essere valutato rispetto al tributo indiretto del quale si sia comprovata l’elusione (e cioè l’imposta di registro), con esclusione di conseguenze sanzionatorie rispetto all’Iva applicata e detratta senza realizzo di vantaggi d’imposta.
—
Come si possono ottimizzare le cessioni d’azienda da un punto di vista fiscale? Quali sono le conseguenze sanzionatorie degli eventuali giudizi di “abusività” delle cessioni di beni riqualificabili come cessioni d’azienda?
Con il servizio Chiedi agli esperti di We Wealth puoi contattare gratuitamente un professionista che ti potrà guidare nella scelta dei migliori investimenti e nella gestione del tuo patrimonio. Fai una domanda a uno dei 300 esperti disponibili su We Wealth.