Com’è noto, infatti, il sale and lease back (letteralmente vendere e riaffittare) – species del più ampio genus del leasing finanziario – è un contratto con cui un soggetto, normalmente un imprenditore, vende a una società di leasing un bene (generalmente immobile) conservandone la disponibilità. Il medesimo bene, infatti, una volta versato il prezzo di vendita, viene concesso in locazione, dietro pagamento di un canone periodico pattuito e per un dato periodo di tempo, dalla società acquirente all’originario proprietario. Quest’ultimo, poi, a scadenza di contratto, avrà la facoltà di riacquistare la proprietà del bene, versando il prezzo di riscatto predeterminato tra le parti alla luce della somma totale dei canoni di locazione già pagati.
Il tutto non senza benefici di carattere fiscale: ai fini delle imposte dirette, i canoni di locazione versati alla società sono ammessi integralmente in deduzione dal reddito di impresa e, ai fini Iva, la vendita dell’immobile in seno a lease back non è soggetto a imposta, non potendo essere qualificata come “cessione di beni” ai fini della base imponibile Iva. Ciò in quanto il diritto trasferito in capo all’istituto finanziario a seguito del leasing non lo autorizza a disporre del bene come se fosse il proprietario (Corte Giust., v. sent. 27 marzo 2019, C-201/18).
Ma si sa, le galline dalle uova d’oro esistono solo nelle favole e, in assenza delle dovute cautele, potrebbe essere messa in dubbio la liceità del negozio. Il rischio maggiore è che il contratto di lease back nasconda un’operazione in frode al divieto di patto commissorio, ex art. 2744 c.c. Bisogna, cioè, escludere che venga dissimulato fraudolentemente l’accordo tramite cui una parte si impegna, fin dall’inizio, a cedere un proprio bene immobile all’altra parte in caso di mancato adempimento di un obbligo; accordo, questo, vietato dall’ordinamento, che per il recupero delle somme dovute offre strumenti ben diversi.
Parliamo, in particolare:
(i.) di una situazione di credito e debito tra la società finanziaria e l’impresa venditrice utilizzatrice;
(ii.) delle difficoltà economiche dell’impresa venditrice utilizzatrice;
(iii.) della sproporzione tra il valore del bene trasferito e il corrispettivo versato dall’acquirente.
Con particolare, riguardo, poi, alla finalità elusiva di obblighi tributari, spetta al giudice di merito verificare che l’operazione sia posta in essere per soddisfare reali esigenze di liquidità, e che non comporti un uso distorto o improprio dello strumento negoziale volto a perseguire esclusivamente o essenzialmente un indebito vantaggio fiscale, contrario allo scopo delle norme tributarie (Cass., sent. 27 aprile 2021, n. 11023).
Insomma, ove non ricorrano le suddette circostanze, il contratto di lease back è messo al riparo da ogni contestazione e può rappresentare un bel salvagente per chi ha bisogno di liquidità. Non a caso, si tratta di una forma contrattuale che pare essere tornata in auge, proprio negli ultimi tempi, tra le imprese messe in ginocchio dall’emergenza epidemiologica da covid-19. Visto che la pandemia- variante delta permettendo – dovrebbe ormai volgere al termine, il lease back potrebbe aiutare gli imprenditori a ridurre l’esposizione debitoria, risanare il bilancio e rilanciare il Made in Italy, scongiurando il rischio di perdere l’azienda, magari di famiglia.