A rendere più vulnerabili i Paesi emergenti è il fatto che circa la metà del debito pubblico emesso è denominato in valuta estera, mentre più di due quinti sono detenuti da non residenti
Secondo i dati pubblicati da JPMorgan i fondi obbligazionari emergenti hanno subito deflussi netti da 50 miliardi di dollari, testimoniando così la più grave crisi di fiducia mai osservata negli ultimi 17 anni
Se l’inflazione si rivelerà più persistente del previsto nelle economie avanzate, questo non sarà un problema solo per il costo della vita: per gli investitori in mercati emergenti potrebbe ripresentarsi l’incubo dei default sul debito pubblico.
Ad avvertire su questo rischio sono tre economisti della Banca Mondiale in un recente intervento comparso su VoxEu, nel quale vengono presentate, in un excursus storico, le conseguenze che la stagflazione degli anni Settanta e inizio Ottanta aveva avuto per i mercati in via di sviluppo. Nel corso degli anni Ottanta sono scoppiate “oltre tre dozzine di crisi del debito, perlopiù nell’Africa sub-sahariana e in America meridionale”.
E’ uno scenario che torna di grande attualità ora che i rialzi dei tassi delle banche centrali potrebbero portare ad una recessione economica in un contesto di crescita dei prezzi elevata, innescando per l’appunto il raro fenomeno della stagflazione.
Le vulnerabilità del debito emergente
“Se dovessero essere nuovamente necessari forti rialzi dei tassi per riportare sotto controllo l’inflazione nelle economie avanzate, i Paesi emergenti e in via di sviluppo si troverebbero ancora una volta ad affrontare gravi sfide”, hanno scritto i tre economisti della Banca Mondiale, “il debito totale [privato e pubblico] di questi Paesi ha raggiunto il livello record del 207% del Pil. Il [solo] debito pubblico dei è pari al 64% del Pil, il livello più alto degli ultimi trent’anni”.
A rendere più vulnerabili i Paesi emergenti è il fatto che circa la metà del debito pubblico emesso è denominato in valuta estera forte, che in un contesto di tassi d’interesse crescenti nelle economie sviluppate tende a creare problemi. In breve, diventa più oneroso per i Paesi emergenti onorare il debito contratto in monete estere (come il dollaro) se queste si rafforzano sulle monete locali.
Inoltre, più di due quinti del debito denominato in valuta estera sono detenuti da non residenti, ossia da soggetti che più facilmente in scenari di crisi sono propensi a vendere i titoli di Stato in loro possesso, provocando un aumento dei costi di finanziamento per i governi dei Paesi emergenti. Tale aumento dei costi, sulla lunga distanza, aumenta a sua volta le probabilità di insolvenza. In sintesi, si “potrebbe nuovamente innescare una crisi del debito sovrano, poiché queste economie presentano vulnerabilità ancora maggiori rispetto a prima della pandemia”, hanno affermato i tre economisti, “circa il 60% dei Paesi più poveri si trova già in una situazione di sofferenza del debito o ad alto rischio”.
Da qualche tempo i rischi sono stati individuati dagli investitori che, infatti, si sono ritirati massicciamente dai mercati emergenti. Secondo i dati pubblicati da JPMorgan i fondi obbligazionari emergenti hanno subito deflussi netti da 50 miliardi di dollari, testimoniando così la più grave crisi di fiducia mai osservata negli ultimi 17 anni.
“C’è il rischio che in queste economie emergano tensioni finanziarie in un contesto di forte rallentamento della crescita globale”, hanno concluso gli autori; ad essere più esposti in questo scenario sono quei Paesi emergenti che “presentano ampi disavanzi delle partite correnti e una forte dipendenza dagli afflussi di capitale estero, nonché quelli con alti livelli di debito pubblico o privato a breve termine o denominato in valuta estera: queste economie devono prepararsi ad affrontare la tempesta del ciclo di inasprimento”. Una recente analisi pubblicata da Bloomberg aveva individuato la lista dei Paesi emergenti al momento più vulnerabili, ne avevamo parlato qui.