Secondo i dati riportati dall’Osservatorio Innovazione digitale delle Pmi aggiornati al 2021, su 4,4 milioni di imprese attive in Italia, le microimprese con meno di 10 addetti sono quelle numericamente più importanti, rappresentando il 95,05% del totale, contro un 0,09% di grandi imprese. Le Pmi contano invece circa 206mila unità, pari al restante 4,86% del tessuto imprenditoriale italiano. Sono queste ultime ad impattare di più in termini di ricavi complessivi: da sole, le Pmi, coprono il 41% dell’intero fatturato generato in Italia e il 33% della forza lavoro occupata.
Le piccole e medie imprese italiane sono protagoniste della trasformazione digitale su due principali fronti: da un lato, sono coloro che meglio riescono a portare innovazione sul mercato, grazie ad un approccio dinamico e volto al cambiamento; dall’altro, sono coloro che più possono beneficiare dell’innovazione digitale, sbloccando potenziale ancora inespresso e migliorando la propria competitività su un mercato più ampio.
Il valore dell’innovazione
Conscio del loro enorme valore, il Governo italiano negli ultimi 10 anni ha attuato importanti politiche economiche a supporto dell’imprenditoria italiana e dell’innovazione in senso più ampio. “A monte dell’interesse economico in questo tipo di attività vi sono anzitutto la spinta derivante dal Covid e i nuovi obiettivi dichiarati di sviluppo digitale a livello europeo, pari circa a un 20% del totale delle risorse previste dal Next Generation Eu e ad un 27% dei 191,5 miliardi di euro destinati all’Italia (impiegati tramite l’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza italiano, il Pnrr)” spiega Alessandro Bruscagin, Chief Executive Officer di Archeide Lux.
Il nuovo slancio verso le realtà ad alto potenziale ha rinvigorito anche un mercato più complesso come quello del venture capital (VC), fucina di nuove realtà dall’elevato potenziale. “Il venture capital è un po’ come il settore giovanile di una squadra sportiva: se una azienda vuole restare sul mercato negli anni futuri deve investire sulle nuove leve”.
Excursus sul venture capital
Le prime norme nel settore del VC sono state emanate nel 2012 (con la normativa sulle start up innovative). Da lì, si sono susseguiti una serie di altri passaggi: nel 2014 è stato integrato l’aggiustamento con un primo rilancio fiscale; nel 2015, l’investment compact ha introdotto il riconoscimento delle Pmi innovative, con una serie di agevolazioni di crediti di imposta e imprenditoria nel mondo startup, già previste dal dl n.179-2012.
“Le norme introdotte nel 2012, 2014 e 2015 hanno dato l’avvio al credito d’imposta sugli investimenti in VC, alle disposizioni per lo sviluppo di incubatori e acceleratori di startup, ai piani di investimento di Cassa depositi e prestiti, Invitalia e Mise e al lancio di piattaforme di equity e lending crowdfunding. Misure fondamentali per far conoscere l’ecosistema startup agli investitori italiani. Ultimo ma non meno importante, è stato introdotto il credito di imposta sull’attività di Ricerca e Sviluppo” prosegue Bruscagin.
L’Italia non può fermarsi
Sebbene molti passi avanti siano stati compiuti, l’Italia resta ancora indietro rispetto alle altre principali economie in materia di startup. “Se si guarda agli investimenti pro capite in VC, la Svezia spende all’anno $1329 in nuovi progetti; Israele $1011; gli Stati Uniti $833, il Regno Unito $479, l’Europa (in media) $139. L’Italia, 14 dollari appena.
È necessario impegnarsi affinché il venture capital diventi una asset class da inserire regolarmente in portafoglio: “mediamente, nel mondo il VC rende il 16% all’anno. Questo mondo va però nutrito, alimentando un ecosistema ricco di nuove opportunità. In quest’ottica” conclude Bruscagin” stiamo preparando le basi per essere presenti nel settore dell’innovazione già a partire dal 2022”.