Imposta sui servizi digitali (Isd): una partenza in salita

9.2.2021
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Ci sono molti punti interrogativi sulla nuova Isd, l'imposta sui servizi digitali. Quali i servizi tassabili, le scadenze e gli scogli della digital service tax?
Difficile non considerare in salita la partenza della nuova Isd (Imposta sui servizi digitali): l'Agenzia delle entrate ha (opportunamente) indetto una consultazione pubblica su una bozza di provvedimento applicativo, il cui varo definitivo ha lasciato tuttavia aperti molti interrogativi.
Si tratta di un'imposta apparentemente contenuta (3% sui ricavi), ma dai notevoli riflessi extrafiscali, dal momento che finisce per gravare principalmente sui colossi d'oltreoceano - non è un caso che il rappresentante per il commercio statunitense, a seguito di un'apposta istruttoria, abbia giudicato l'imposta digitale italiana (così come quella indiana e quella turca) sostanzialmente discriminatoria ed eccessivamente onerosa nei confronti delle imprese americane.
Si tratta di una tesi che, peraltro, trova sponda nei paesi “virtuosi” dell'Unione europea (come l'Olanda), che ritengono l'imposta uno strumento dei paesi “viziosi” (Francia, Italia e Spagna) per risollevare (almeno in parte) le sorti del proprio debito pubblico: insomma, un modo (anche alquanto complicato) per fare cassa, con il rischio, però, di subire ritorsioni da parte degli Stati Uniti nell'ambito degli scambi commerciali.
Non è comunque un'imposta che possa essere ignorata dagli operatori domestici o degli altri paesi, sempre che si tratti di soggetti di rilevanti dimensioni.
I contribuenti interessati devono infatti aver realizzato nel 2020 (ovunque nel mondo, singolarmente o a livello di gruppo) un ammontare di ricavi almeno pari a 750 milioni di euro - si noti, però, che rilevano anche quei ricavi che nulla hanno a che vedere con il digitale (per intenderci, vale anche la vendita di biscotti); inoltre, devono aver incassato in Italia nello stesso periodo un ammontare di ricavi da servizi digitali almeno pari a 5 milioni e mezzo di euro (in Francia occorre invece superare il limite ben più alto di 25 milioni di euro).
I servizi tassabili sono tre: la veicolazione su un'interfaccia digitale di pubblicità mirata agli utenti della medesima interfaccia (un esempio per capirci: navigo sul sito di un giornale e compare una pubblicità di scarpe perché poco prima ho navigato sul sito di quelle scarpe); la messa a disposizione di un'interfaccia digitale multilaterale che consente agli utenti di essere in contatto e di interagire tra loro, anche al fine di facilitare la fornitura diretta di beni o servizi (sempre per capirci: vendo una macchina fotografica usata su un sito di vendite a un altro utente iscritto al relativo sito – quel sito lucra una commissione, sulla quale si applica la nuova imposta); infine, la trasmissione di dati raccolti da utenti e generati da un'interfaccia digitale (sul “commercio” di dati consensualmente forniti in rete dagli utenti non credo servano esempi).
Un cenno alle scadenze (già slittate rispetto al termine originario): il versamento entro il 16 marzo, e la dichiarazione entro il 30 aprile prossimi.
Alcuni degli scogli maggiori: l'imposta è applicabile laddove il provento sia riscosso in Italia, ovvero, semplificando, laddove i servizi siano fruiti mediante un dispositivo (ad esempio, uno smartphone) localizzato nel territorio italiano. A tal proposito fa fede l'indirizzo di protocollo internet (Ip) o, in mancanza di questo indirizzo, altri metodi di geolocalizzazione.
Ma l'Ip è facilmente eludibile (è sufficiente una Vpn) e i metodi di geolocalizzazione sono quasi una tautologia (la regola suona pressappoco così: il contribuente è geolocalizzato attraverso altri metodi di geolocalizzazione).
Non solo, tassare la veicolazione di pubblicità mirata comporta molteplici questioni: occorre innanzitutto definire quando l'internauta sia “preso di mira” e quando no, quando la veicolazione sia intermediata e da chi (con il rischio, più che teorico, di molteplici tassazioni dello stesso ricavo).
Sono solo alcuni esempi tratti da una lunga lista (la consultazione pubblica ha certamente aiutato a farli emergere); la buona notizia, forse, è che l'imposta è destinata a sparire (per previsione normativa), una volta raggiunto l'accordo a livello internazionale in materia di tassazione dell'economia digitale (accordo che, per inciso, richiede il consenso, soprattutto, degli americani).
Si tratta di una tesi che, peraltro, trova sponda nei paesi “virtuosi” dell'Unione europea (come l'Olanda), che ritengono l'imposta uno strumento dei paesi “viziosi” (Francia, Italia e Spagna) per risollevare (almeno in parte) le sorti del proprio debito pubblico: insomma, un modo (anche alquanto complicato) per fare cassa, con il rischio, però, di subire ritorsioni da parte degli Stati Uniti nell'ambito degli scambi commerciali.
Non è comunque un'imposta che possa essere ignorata dagli operatori domestici o degli altri paesi, sempre che si tratti di soggetti di rilevanti dimensioni.
I contribuenti interessati devono infatti aver realizzato nel 2020 (ovunque nel mondo, singolarmente o a livello di gruppo) un ammontare di ricavi almeno pari a 750 milioni di euro - si noti, però, che rilevano anche quei ricavi che nulla hanno a che vedere con il digitale (per intenderci, vale anche la vendita di biscotti); inoltre, devono aver incassato in Italia nello stesso periodo un ammontare di ricavi da servizi digitali almeno pari a 5 milioni e mezzo di euro (in Francia occorre invece superare il limite ben più alto di 25 milioni di euro).
I servizi tassabili sono tre: la veicolazione su un'interfaccia digitale di pubblicità mirata agli utenti della medesima interfaccia (un esempio per capirci: navigo sul sito di un giornale e compare una pubblicità di scarpe perché poco prima ho navigato sul sito di quelle scarpe); la messa a disposizione di un'interfaccia digitale multilaterale che consente agli utenti di essere in contatto e di interagire tra loro, anche al fine di facilitare la fornitura diretta di beni o servizi (sempre per capirci: vendo una macchina fotografica usata su un sito di vendite a un altro utente iscritto al relativo sito – quel sito lucra una commissione, sulla quale si applica la nuova imposta); infine, la trasmissione di dati raccolti da utenti e generati da un'interfaccia digitale (sul “commercio” di dati consensualmente forniti in rete dagli utenti non credo servano esempi).
Un cenno alle scadenze (già slittate rispetto al termine originario): il versamento entro il 16 marzo, e la dichiarazione entro il 30 aprile prossimi.
Alcuni degli scogli maggiori: l'imposta è applicabile laddove il provento sia riscosso in Italia, ovvero, semplificando, laddove i servizi siano fruiti mediante un dispositivo (ad esempio, uno smartphone) localizzato nel territorio italiano. A tal proposito fa fede l'indirizzo di protocollo internet (Ip) o, in mancanza di questo indirizzo, altri metodi di geolocalizzazione.
Ma l'Ip è facilmente eludibile (è sufficiente una Vpn) e i metodi di geolocalizzazione sono quasi una tautologia (la regola suona pressappoco così: il contribuente è geolocalizzato attraverso altri metodi di geolocalizzazione).
Non solo, tassare la veicolazione di pubblicità mirata comporta molteplici questioni: occorre innanzitutto definire quando l'internauta sia “preso di mira” e quando no, quando la veicolazione sia intermediata e da chi (con il rischio, più che teorico, di molteplici tassazioni dello stesso ricavo).
Sono solo alcuni esempi tratti da una lunga lista (la consultazione pubblica ha certamente aiutato a farli emergere); la buona notizia, forse, è che l'imposta è destinata a sparire (per previsione normativa), una volta raggiunto l'accordo a livello internazionale in materia di tassazione dell'economia digitale (accordo che, per inciso, richiede il consenso, soprattutto, degli americani).