I Pepp si affiancano ai trattamenti presenti nel sistema previdenziale italiano: fondi pensione aperti, fondi negoziali e piani individuali pensionistici
Gli operatori dovranno disegnare un prodotto che abbia fino a sei opzioni d’investimento di cui almeno una sia un Pepp base (l’opzione standard d’investimento)
Siri: “Credo sia strategico sperimentare i Pepp anche per l’industria italiana del risparmio gestito. Guardando ai giovani”
Un esperimento dal punto di vista regolamentare ma anche dal punto di vista degli operatori del settore, che punta a favorire la costruzione di un mercato paneuropeo dei prodotti pensionistici individuali. Aggiungendosi e non sostituendosi agli strumenti già esistenti. Ma guardando soprattutto a quella fetta di risparmiatori (giovani o con carriere lavorative discontinue) che non aderiscono oggi ad alcuna forma di previdenza. Ecco cosa sono i Pepp (Pan-european personal pension products) e perché rappresentano un’opportunità anche per l’industria del risparmio gestito secondo gli esperti intervenuti in occasione della seconda giornata del Salone del Risparmio, nella cornice milanese del MiCo.
Cosa sono
Nati dal Regolamento (UE) 2019/1238 applicabile a partire dal 22 marzo scorso in tutti gli Stati membri e recepito in Italia da un decreto legislativo approvato dal Consiglio dei ministri n. 76 del 5 maggio, i Pepp sono dei prodotti pensionistici individuali che si affiancano ai trattamenti presenti nel sistema previdenziale italiano: fondi pensione aperti, fondi negoziali e piani individuali pensionistici. Ma con una dimensione, come anticipato in apertura, paneuropea. Che, secondo Pierpaolo Marano dell’Università Cattolica di Milano, rappresenta la loro “croce” e la loro “delizia”. I Pepp, infatti, godono di due caratteristiche fondamentali: la portabilità tra tutti gli Stati membri e la possibilità di essere offerti da diversi operatori di mercato con statuti regolamentari differenti: imprese d’investimento, gestori di fondi, investitori di previdenza privati e compagnie di assicurazione.
Un caso pratico
Nel momento in cui un operatore decide di offrire un Pepp, deve prevedere di offrirlo in almeno due Stati membri nell’arco di tre anni dall’entrata in vigore del regolamento. “Deve immaginare, insomma, che chi lo sottoscrive possa recarsi per un periodo di soggiorno relativamente lungo in almeno altri due Stati membri. Tenendo conto del diritto al trasferimento e del diritto alla portabilità”, spiega Marano. “Se per esempio un soggetto residente in Italia sottoscrive un Pepp, viene aperto un conto che registra tutte le operazioni. Se poi decide di trasferire la residenza in Belgio, ha il diritto a chiedere la portabilità del prodotto al proprio fornitore di Pepp, che dovrebbe aver aperto un sottoconto in Belgio che dovrebbe godere di una serie di agevolazioni nella fase di accumulo e decumulo. Se il fornitore non possiede questo sottoconto, il risparmiatore potrebbe decidere di mantenere la fase di accumulo e decumulo in Italia e trasferire la propria posizione a un altro fornitore di Pepp, in deroga al principio che si può trasferire la propria posizione solo dopo che siano trascorsi almeno cinque anni”.
Le sfide per gli operatori
Un aspetto sfidante, secondo Marano, perché chi realizza un prodotto deve immaginare in via preventiva dove un lavoratore italiano tipo potrebbe recarsi nel corso della propria attività lavorativa. Qualora invece nel realizzare questo sistema di conti e sottoconti decidesse di farlo con altri operatori con accordi di partenariato, dovrà disegnare un prodotto “che abbia fino a sei opzioni d’investimento di cui almeno una sia un Pepp base (l’opzione standard d’investimento, ndr) che deve garantire la conservazione del capitale e un tetto a costi e commissioni pari all’1% del capitale accumulato per anno”, spiega l’esperto. Un tetto, aggiunge, che non invoglierebbe a realizzare questa tipologia di prodotti. Senza dimenticare il fatto che il quadro normativo non risulta ancora completamente definito in quanto, a fronte di un regolamento unitario, sussistono “discipline nazionali che creano elementi di incertezza”.
Questo perché, come aggiunge Michele Squeglia dell’Università Statale di Milano, il regolamento lascia ai singoli Stati membri la possibilità di definire le condizioni relative alle fasi di accumulo e decumulo. Il che significa che un sottoconto italiano sarà necessariamente disciplinato dalla legge italiana. “Ci sono dunque una serie di disarmonie di cui tenere conto”, spiega. “Innanzitutto, si rischia di ostacolare quella mobilità transfrontaliera che il regolamento stesso vorrebbe agevolare, se si pensa al limite dei cinque anni (il risparmiatore, in generale, può trasferirsi presso un altro fornitore di Pepp solo dopo che siano trascorsi almeno cinque anni dalla stipula del contratto, ndr). E poi c’è il tema del Tfr, cioè l’impossibilità di conferimento del trattamento di fine rapporto”. Una decisione, quest’ultima, che è stata prevista per evitare che gli operatori decidessero di focalizzarsi “esclusivamente su un determinato tipo di potenziali aderenti”, interviene Nicola Mango, dirigente ufficio III, direzione V del Dipartimento del Tesoro del Mef. “Il Tfr ha già le sue naturali ed efficienti allocazioni e destinazioni”, spiega Mango. “La sfida è spingere gli operatori a cercare di individuare tipologie di potenziali risparmiatori in Pepp differenti rispetto all’attuale platea di soggetti che aderiscono alla previdenza complementare”.
Le prospettive
“In Italia le famiglie detengono oltre 5mila miliardi di attività finanziarie, un aggregato vasto e composito. Al suo interno poco più del 4% è costituito da attività di tipo previdenziale. Quindi se da un lato come aggregato si tratta sicuramente di un numero soddisfacente, sulla composizione si può e si deve migliorare. Da qui, la sfida dei Pepp si dimostra essere ancora più difficile”, continua Mango. “I Pepp dovranno essere aperti a chi aderisce a una forma di previdenza ma soprattutto a chi ne è sprovvisto, le fasce d’età più giovani e le carriere lavorative caratterizzate da discontinuità. Il collocamento online, in questo contesto, contribuirà sia a tenere i bassi costi sia ad attrarre questo tipo di target”. Dello stesso avviso anche Michele Siri dell’Università di Genova. “Penso che sia un’occasione da cogliere. Anche perché, se guardiamo ai dati presentati recentemente dalla Covip, scopriamo uno spread italiano rispetto agli altri paesi preoccupante. Abbiamo una percentuale di aderenti alla previdenza complementare di circa un terzo. E sempre quei dati mostrano come ci sia un’ampia fetta di lavoratori che non versano. Può dipendere dalla crisi, dal lavoro discontinuo, ma io ho l’impressione che dipenda anche dal modo in cui avviene il dialogo con le future generazioni. Per questo credo sia strategico sperimentare i Pepp anche per l’industria italiana del risparmio gestito. Perché si guarda ai giovani. E l’essere uno strumento nativo digitale facilita questo passaggio generazionale”, spiega Siri. Poi conclude: “I giovani saranno gli investitori del domani e del dopodomani. Con i Pepp l’industria potrà guardare al domani e al futuro delle nuove generazioni”.