Nodi sul governo dell'impresa di famiglia

11.10.2021
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Una recente pronuncia del Tribunale di Milano rileva alcuni dubbi sulla liceità dei sindacati di gestione, che aprirebbe la strada a potenziali conflitti d'interesse. Il confronto con il modello dei sindacati di voto
Il tribunale di Milano è stato recentemente chiamato a pronunciarsi in fase cautelare su un litigio concernente una nota azienda famigliare milanese composta da tre rami famigliari corrispondenti ai tre figli del fondatore, proprietari in quote paritetiche, attraverso una holding operativa e di partecipazioni, di proprietà e iniziative immobiliari di prestigio in luoghi storici del centro di Milano.
Dall'ordinanza, emerge che divergenze nella gestione del gruppo di famiglia portano le due sorelle a stipulare un patto parasociale e a darvi esecuzione nominando un nuovo organo amministrativo e rivedendo più generalmente l'organigramma aziendale secondo le indicazioni della nuova maggioranza sindacata.

Il fratello estromesso dalla gestione, nel tentativo di ottenere una pronuncia in via di urgenza di inefficacia delle delibere intraprese, contesta la validità di un patto parasociale a suo dire portatore di interessi contrari all'interesse sociale e unicamente rivolto a soddisfare gli interessi dei rami famigliari delle sorelle oltre a imporre agli amministratori scelte di gestione che la legge richiede vengano da essi assunte in via autonoma ed esclusiva.
Tratteggiato il contesto, quel che più rileva rispetto alle vicende del caso concreto, è la concisa – in quanto incidentale - riflessione del tribunale di Milano sulla questione dell'eterodirezione e della validità di patti parasociali aventi ad oggetto questioni gestionali. Il sindacato di voto viene definito come quell'accordo, tipizzato dal codice civile per le società per azioni, che ha per oggetto l'espressione del voto dei soci aderenti e, dunque, un atto “destinato a restare nella libera disponibilità dei soci secondo gli interessi e le contingenti valutazioni di questi ultimi”.
Il sindacato di gestione viene invece definito come il patto stipulato al fine di delineare le linee di sviluppo dell'attività sociale impegnando al riguardo o direttamente i soci amministratori ovvero i soci non amministratori perché influiscano sull'organo gestorio.
A differenza del primo, questo secondo patto sarebbe a dire del Tribunale di ben più dubbia liceità in quanto, da un lato, non previsto tra le casistiche enumerate dal codice civile e, dall'altro lato, incide “su comportamenti di soggetti che, a differenza dei soci, sono investiti inderogabilmente di una funzione, hanno cioè l'intera ed esclusiva responsabilità della gestione dell'impresa sociale, nell'interesse della società ed anche dei terzi”.
Tratteggiato il contesto, quel che più rileva rispetto alle vicende del caso concreto, è la concisa – in quanto incidentale - riflessione del tribunale di Milano sulla questione dell'eterodirezione e della validità di patti parasociali aventi ad oggetto questioni gestionali. Il sindacato di voto viene definito come quell'accordo, tipizzato dal codice civile per le società per azioni, che ha per oggetto l'espressione del voto dei soci aderenti e, dunque, un atto “destinato a restare nella libera disponibilità dei soci secondo gli interessi e le contingenti valutazioni di questi ultimi”.
Il sindacato di gestione viene invece definito come il patto stipulato al fine di delineare le linee di sviluppo dell'attività sociale impegnando al riguardo o direttamente i soci amministratori ovvero i soci non amministratori perché influiscano sull'organo gestorio.
A differenza del primo, questo secondo patto sarebbe a dire del Tribunale di ben più dubbia liceità in quanto, da un lato, non previsto tra le casistiche enumerate dal codice civile e, dall'altro lato, incide “su comportamenti di soggetti che, a differenza dei soci, sono investiti inderogabilmente di una funzione, hanno cioè l'intera ed esclusiva responsabilità della gestione dell'impresa sociale, nell'interesse della società ed anche dei terzi”.
Il Tribunale di Milano, citando la Cassazione, ritiene che l'accordo che prevede non solo un sindacato di voto nelle delibere assembleari, ma anche in ogni delibera del consiglio di amministrazione (non escluse quelle riguardanti la nomina di dirigenti e quadri), abbia ad oggetto anche l'attività di gestione della società. Qualora i componenti del consiglio di amministrazione sottoscrivano il patto, essi si impegnano direttamente a rispettare le decisioni che la direzione del sindacato impone.
Di qui, si verrebbe a creare “una situazione di potenziale quanto immanente conflitto di interessi” tra amministratori e società e i terzi.
Si tratta di un principio molto forte, enunciato non trascurando che la questione sia complessa.
È infatti necessario considerare che l'art. 2341 bis del codice civile, da un lato, si limita a dettare alcuni profili di disciplina dei patti parasociali senza alcun carattere esaustivo, specie con
riferimento ai limiti di ammissibilità di tali accordi e, dall'altro lato, non dovrebbe comunque ritenersi rilevante in tema di sindacati di gestione, in quanto tale norma non appare contemplare patti parasociali incidenti direttamente sulla gestione sociale o addirittura un diretto controllo esterno sulla gestione, bensì sulla assemblea sociale.
La giurisprudenza afferma che i patti parasociali, pur vincolando esclusivamente le parti contraenti e non potendo incidere direttamente sull'attività sociale, devono ritenersi legittimi quando siano destinati a realizzare un risultato pienamente consentito dall'ordinamento e illegittimi quando il contenuto dell'accordo si ponga in contrasto con norme imperative o sia idoneo a consentire l'elusione di norme o principi generali dell'ordinamento inderogabili.
Qualora si ritenga che solo i patti parasociali contemplati dal codice civile siano leciti, si deve pertanto concludere per la legittimità di patti parasociali aventi ad oggetto l'espressione del voto dei soci aderenti nell'assemblea sociale.
Nel sindacato di gestione, invece, il Tribunale di Milano ravvisa una situazione di conflitto con la legge per il solo fatto dell'adesione al patto parasociale, perché inciderebbe su “comportamenti di
soggetti che, a differenza dei soci, sono investiti inderogabilmente di una funzione, hanno cioè l'intera ed esclusiva responsabilità della gestione dell'impresa sociale, nell'interesse della società ed anche dei terzi che con essa vengano in vario modo in contatto”. Quando però la figura del socio e dell'amministratore coincidono, come nel caso delle aziende a gestione familiare, se ne deve forse dedurre che ogni patto di sindacato configuri un patto di gestione? È opportuno essere prudenti.
Così come sulla portata di precedente del caso esaminato. In effetti, nell'ordinanza il Tribunale di Milano era chiamato a decidere dell'inefficacia degli effetti di delibere che in conclusione non sono state considerate dannose per la società. Il giudice ha voluto comunque rispondere alla questione posta dal ricorrente, il terzo fratello estraneo al patto, chiarendo che la questione della liceità o meno del patto non era rilevante nel caso di specie.
Articolo tratto dal magazine We Wealth di settembre 2021
Di qui, si verrebbe a creare “una situazione di potenziale quanto immanente conflitto di interessi” tra amministratori e società e i terzi.
Si tratta di un principio molto forte, enunciato non trascurando che la questione sia complessa.
È infatti necessario considerare che l'art. 2341 bis del codice civile, da un lato, si limita a dettare alcuni profili di disciplina dei patti parasociali senza alcun carattere esaustivo, specie con
riferimento ai limiti di ammissibilità di tali accordi e, dall'altro lato, non dovrebbe comunque ritenersi rilevante in tema di sindacati di gestione, in quanto tale norma non appare contemplare patti parasociali incidenti direttamente sulla gestione sociale o addirittura un diretto controllo esterno sulla gestione, bensì sulla assemblea sociale.
La giurisprudenza afferma che i patti parasociali, pur vincolando esclusivamente le parti contraenti e non potendo incidere direttamente sull'attività sociale, devono ritenersi legittimi quando siano destinati a realizzare un risultato pienamente consentito dall'ordinamento e illegittimi quando il contenuto dell'accordo si ponga in contrasto con norme imperative o sia idoneo a consentire l'elusione di norme o principi generali dell'ordinamento inderogabili.
Qualora si ritenga che solo i patti parasociali contemplati dal codice civile siano leciti, si deve pertanto concludere per la legittimità di patti parasociali aventi ad oggetto l'espressione del voto dei soci aderenti nell'assemblea sociale.
Nel sindacato di gestione, invece, il Tribunale di Milano ravvisa una situazione di conflitto con la legge per il solo fatto dell'adesione al patto parasociale, perché inciderebbe su “comportamenti di
soggetti che, a differenza dei soci, sono investiti inderogabilmente di una funzione, hanno cioè l'intera ed esclusiva responsabilità della gestione dell'impresa sociale, nell'interesse della società ed anche dei terzi che con essa vengano in vario modo in contatto”. Quando però la figura del socio e dell'amministratore coincidono, come nel caso delle aziende a gestione familiare, se ne deve forse dedurre che ogni patto di sindacato configuri un patto di gestione? È opportuno essere prudenti.
Così come sulla portata di precedente del caso esaminato. In effetti, nell'ordinanza il Tribunale di Milano era chiamato a decidere dell'inefficacia degli effetti di delibere che in conclusione non sono state considerate dannose per la società. Il giudice ha voluto comunque rispondere alla questione posta dal ricorrente, il terzo fratello estraneo al patto, chiarendo che la questione della liceità o meno del patto non era rilevante nel caso di specie.
Articolo tratto dal magazine We Wealth di settembre 2021