L’apporto degli Nft: bolla speculativa o innovazione epocale?

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La rapida diffusione del fenomeno Nft comporta necessariamente un’analisi a livello di inquadramento giuridico. La difficile identificazione dello strumento e la complessa tracciabilità degli scambi provocano inevitabili implicazioni a livello legale e, conseguentemente, un incerto trattamento fiscale

A seguito dell’elevata popolarità riscontrata da Bitcoin, Ether e Ripple, il mercato degli asset digitali continua a raccogliere successi grazie all’introduzione dei cosiddetti non fungible token (Nft). A differenza dei primi, questi ultimi non rappresentano criptovalute, bensì token crittografici, i quali vengono strettamente collegati a un bene sottostante. L’acquirente del non fungibile token non acquista, dunque, il bene in sé, ma diventa possessore di un diritto su di esso, rendendo l’Nft una sorta di certificato che attesta la proprietà sul bene, garantito tramite uno smart contract.

Tutto può essere “tokenizzato”: opere d’arte, frammenti di video, canzoni, tweet, capi d’abbigliamento e persino parti del corpo.

L’autenticità e l’unicità di cui godono tali token è garantita dai pilastri su cui si basa la tecnologia blockchain: decentralizzazione, trasparenza, sicurezza, immutabilità e consenso. Detta tecnologia consiste sostanzialmente in un database digitale in cui vengono iscritti, convalidati e crittografati, attraverso un sistema a doppia chiave pubblica-privata, i diversi asset digitali, eliminando ogni possibilità di double spending (copia del bene, fenomeno molto semplice da effettuare in ambito digitale) e permettendo quindi di riflettere il relativo valore intrinseco che li contraddistingue. Ogni transazione, poi, viene raccolta e memorizzata nella blockchain grazie alla cosiddetta Distributed ledger technology (Dlt), una più ampia architettura tecnologica sotto la quale la blockchain si è sviluppata, che permette a quest’ultima di tenere un registro pubblico e decentralizzato in grado di tracciare ogni passaggio di proprietà e certificarne la validità.

La rapida diffusione del fenomeno Nft comporta necessariamente un’analisi a livello di inquadramento giuridico dello stesso. La difficile identificazione dello strumento e la complessa tracciabilità degli scambi provocano inevitabili implicazioni a livello legale e, conseguentemente, un incerto trattamento fiscale.

L’Unione europea, nel corso del 2020, infatti, ha emesso una proposta di regolamento (Markets in crypto-assets, o Mi.Ca, la quale verrà formalmente adottata entro il 2024), in quanto ritiene necessario “un quadro specifico e armonizzato a livello dell’Unione, allo scopo di definire norme specifiche per le cripto-attività e le attività e i servizi correlati e di chiarire il quadro giuridico applicabile”. Ad oggi, la normativa fiscale in merito al corretto trattamento dei token risulta piuttosto carente, non esistendo regole speciali applicabili né istruzioni o chiarimenti espressi dall’Agenzia delle Entrate al riguardo. Conseguentemente, si possono ipotizzare due principali approcci metodologici fintanto che una via ufficiale non sarà tracciata tramite il Regolamento europeo o la normativa nazionale.

Un primo approccio sottolinea l’importanza del rapporto dell’Nft con il bene sottostante; in questo caso, l’Nft potrebbe non ricadere in nessuna speciale classificazione di beni, ma acquisterebbe peso e valore solamente in quanto ancorato alla categoria del bene sottostante, assumendone pertanto il relativo trattamento fiscale. L’eventuale reddito derivante dalla vendita dell’asset digitale seguirà dunque la medesima disciplina fiscale di quella applicabile alla normale cessione del bene sottostante: nel caso, per esempio, della tokenizzazione di un’opera d’arte significherebbe che l’opera d’arte digitale sarà equiparata, sotto il profilo fiscale, all’opera d’arte fisica.

Un secondo approccio, che a mio avviso è quello che probabilmente assumerà maggior rilievo, ricollega il trattamento fiscale dei token a quello delle criptovalute nei confronti delle quali l’Agenzia delle entrate ha già avuto modo di esprimersi circa l’inquadramento reddituale.

Se l’attività di intermediazione effettuata dalla società gestore dell’exchanger non poneva particolari dubbi circa la qualificazione ai fini fiscali, più complesso era l’inquadramento fiscale del reddito derivante dalla plusvalenza effettuata da una persona fisica che vendeva la criptovaluta al di fuori della propria attività imprenditoriale.

Secondo l’interpretazione fornita in passato dall’Agenzia, le criptovalute sono considerate uno strumento di pagamento alternativo rispetto alla tradizionale moneta avente corso legale; possono, perciò, essere utilizzate dai contribuenti come contropartita di beni e servizi oppure essere utilizzate a fini speculativi, sfruttando l’elevato tasso di volatilità per il tramite di specifiche piattaforme online (exchanger) che permettono di scambiare le valute virtuali in euro al relativo tasso di cambio. In conseguenza di ciò, la cessione di criptovalute genera plusvalenza imponibile nel caso in cui “la giacenza dei depositi e conti correnti (in questo caso portafogli elettronici, wallet) complessivamente intrattenuti dal contribuente, calcolata secondo il cambio vigente all’inizio del periodo di riferimento sia superiore a euro 51.645,69 per almeno sette giorni lavorativi continui”, come disciplinato dal Tuir.

Dal momento che il valore del token posseduto dal contribuente è generalmente espresso nei termini della criptovaluta riferita alla blockchain su cui esso viaggia, parrebbe inevitabile equiparare la detenzione di tale strumento al possesso di criptovalute, in quanto, come specificato precedentemente, non si dispone del bene in sé, ma di un diritto su di esso il cui valore varia in base anche alla volatilità della criptovaluta di pagamento. Da ciò ne deriva che le regole applicabili alle criptovalute siano parimenti seguite per definire il trattamento fiscale degli Nft.

In conclusione, risulta evidente come all’improvviso sviluppo del mercato Nft non sia conseguito un parallelo aggiornamento della normativa fiscale in merito, lasciando utenti e operatori professionali a misurarsi con legislazioni e interpretazioni mutuate da fattispecie analoghe anche se non esattamente sovrapponibili. Sicuramente l’impulso che potrà derivare dalla predisposizione del Regolamento europeo Mi.Ca accompagnerà una più ampia discussione e approfondimento anche a livello di ordinamenti nazionali consentendo, magari, di configurare un quadro giuridico senza aspetti controversi.

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