La sentenza di primo grado aveva dato ragione al contribuente e dunque all’imprenditore
In appello la sentenza si è ribaltata e l’Agenzia delle entrate ha avuto la meglio
Il caso
Il tutto nasce da un ricorso presentato da un imprenditore che aveva ricevuto un avviso di accertamento dall’Agenzia delle entrate. L’Amministrazione fiscale avanzava dunque l’ipotesi di evasione dato che da una parte c’era un conto cassa in negativo e dall’altro risultavano invece operazioni lato conti del titolare. Il ricorso finisce in primo grado. Il giudice di primo grado ha ribadito il fatto che: “la sussistenza di un saldo negativo di cassa, implicando che le voci di spesa sono di entità superiore a quella degli introiti registrati, oltre a costituire un’anomalia contabile, fa presumere l’esistenza di ricavi non contabilizzati in misura almeno pari al disavanzo”. Però sempre gli stessi giudici sostengono che questo principio non si potrebbe applicare nell’ipotesi in questione. Nel caso in esame le incongruenze fiscali, sottolineate dall’Agenzia delle entrate, potevano essere riconducibili agli anticipi fatti dall’imprenditore per far fronte alla gestione della sua attività. Per questo nonostante il giudice ritenga legittimo l’operato dell’Amministrazione fiscale, ha accolto il ricorso del contribuente.
In appello
La vicenda non finisce però qua perché l’Agenzia delle entrate impugna la sentenza e la porta in appello. I giudici in appello decidono dunque che la chiusura in rosso di “un conto cassa implica certamente la prevalenza delle voci di spesa sugli “introiti registrati”, tale da far presumere, “senza alcuna forzatura logica, l’esistenza di altri ricavi, non registrati, in misura almeno pari al disavanzo” e che questo principio vale sia per le società di capitali che per le imprese individuali