È pacifico come la pandemia, per fortuna in via di superamento, abbia modificato vari aspetti della vita sociale (oltre che sanitaria, ovviamente) ed economica: alcuni cambiamenti appaiono reversibili, altri molto meno. Fra questi ultimi mi sembra palese il vigoroso sviluppo del commercio elettronico cosiddetto “indiretto”, dove di elettronico c’è la gestione della transazione, ma poi la merce fisica viene spedita alla volta del consumatore.
Vendite a distanza, se si vuole, nel secolo scorso dominate dal catalogo Postalmarket, e oggi regno incontrastato (almeno in occidente) di Amazon. Ovviamente esiste una miriade di operatori, anche nostrani, attiva sul mercato dell’Unione europea (nel quale, va ricordato, vige la libertà di circolazione delle merci comunitarie) e che, fino ad oggi, al superamento di determinate soglie (comunque modeste) aveva l’obbligo di registrarsi ai fini Iva in ogni Paese comunitario in cui vendeva.
Dal 1° luglio 2021 la “concertazione fiscale” (a dire il vero, l’Iva è già, di per sé, il principale tributo armonizzato a livello comunitario) degli Stati Ue trova recepimento anche in Italia, con importanti ricadute pratiche. Viene infatti adottato il cosiddetto “Oss”:
One stop shop (volendo tradurre, un negozio dove trovi di tutto), immagine che sta a simboleggiare una notevole semplificazione amministrativa.
Infatti, anziché aprire una posizione Iva (o nominare un rappresentante Iva) in ciascun Stato comunitario dove si vende a distanza, per gli operatori italiani sarà possibile aderire al nuovo sistema, ed evitare il moltiplicarsi di adempimenti burocratici (peraltro da applicare secondo le specificità locali), provvedendo a versare tutte le imposte (sul valore aggiunto) dovute ai singoli Stati a uno solo di essi, ovvero il nostro.
Si badi che il sistema è facoltativo e conosce talune deroghe; in più non comporta la possibilità di applicare l’imposta con aliquota unica: ogni consumatore comunitario deve restare inciso da un tributo calcolato con la percentuale vigente nel suo Paese (per capirci, si va dal 17% del Lussemburgo, al 27% dell’Ungheria, passando per il 22%, come noto, dell’Italia).
Va segnalato, per completezza, che il sistema Oss risulta applicabile non solo per le vendite a distanza di beni, ma anche nel caso di servizi prestati a soggetti privati per i quali l’Iva risulti dovuta (in base a regole territoriali alquanto articolate) in uno Stato diverso da quello del prestatore.
Non si tratta, peraltro, di una mera semplificazione burocratica, ma di un passo avanti nel contrasto alle frodi Iva (fenomeno non ancora debellato, e tendenzialmente destinato a rimanere endemico, proprio come il covid-19), alla realizzazione di un contesto competitivo parificato tra le imprese (cosiddetto level playing field), e, se si vuole, alla riaffermazione della dimensione comunitaria (e armonizzata) dell’Iva.
In questa prospettiva resta ancora molto da fare, specie in materia di omogeneizzazione delle
imposte dirette nei vari Stati comunitari, questione resa ancora più complessa dalla presenza non solo di aliquote di prelievo differenti, ma anche da basi imponibili diversamente concepite e calcolate.
Se però verrà effettivamente varata la minimum tax (15%) globale sulle multinazionali, recentemente proposta dagli Stati Uniti, il passo successivo, volendo identificare un “trend”, sarebbe proprio quello di ridurre il divario oggi esistente tra i vari Paesi nella determinazione della base imponibile.
È pacifico come la pandemia, per fortuna in via di superamento, abbia modificato vari aspetti della vita sociale (oltre che sanitaria, ovviamente) ed economica: alcuni cambiamenti appaiono reversibili, altri molto meno. Fra questi ultimi mi sembra palese il vigoroso sviluppo del commercio elettronic…