Il concorso del consulente fiscale nella condotta criminosa può manifestarsi tanto da un punto di vista materiale, quanto morale o psichico
Si configura una responsabilità penale in capo al consulente fiscale se, lo stesso, pur consapevole dei propositi illeciti dei clienti non si oppone all’inoltro delle dichiarazioni né segnali le anomalie
Nel caso di specie, prima del vaglio dei giudici di legittimità, la Corte d’Appello di Milano, a conferma della decisione già emessa dal Tribunale di prime cure, condannava il consulente fiscale in quanto ritenuto responsabile, in concorso con i suoi clienti, del reato di dichiarazione fraudolenta di cui all’art. 2 D.Lgs. n. 74/2000.
Secondo le Corti di merito, infatti, il consulente, non opponendosi alle condotte dei clienti aveva di fatto aderito all’attività illecita, consistente nell’indicazione all’interno delle scritture contabili della società – di cui il commercialista era depositario – di elementi passivi fittizi, relativi ad operazioni inesistenti; con il solo fine di evadere le imposte sui redditi e sul valore aggiunto.
Secondo il percorso argomentativo seguito dai giudici, vi è un vero e proprio contributo causale del consulente. Egli, nella sua qualità di commercialista, aveva infatti tenuto la contabilità delle società, curandone la registrazione delle fatture ed effettuando le dichiarazioni dei redditi; addirittura, con il suo codice fiscale aveva firmato tutte le dichiarazioni e depositato i bilanci della società.
Una simile circostanza è sufficiente a integrare il dolo eventuale e rendere responsabile il commercialista in concorso con i clienti nella determinazione dell’illecito, posto che il concorso nella condotta criminosa può manifestarsi attraverso forme differenziate: tanto da un punto di vista materiale, quanto morale o psichico.
In buona sostanza, vi è un contributo rilevante nella causazione dell’illecito da parte del consulente anche quando questo, non ostacolando la condotta illecita, rafforzi in via di fatto il proposito criminoso; agevolando, di conseguenza, la commissione del reato.
Più in particolare, il contributo causale del consulente alla commissione del reato di cui all’art. 2 DLgs. n. 74 del 2000 si individua nell’aver predisposto e inoltrato per conto dei clienti le dichiarazioni fiscali contenenti l’indicazione di elementi passivi fittizi supportati da fatture per operazioni inesistenti. Inoltre, un’ulteriore forma di contributo partecipativo, va individuata nell’ omessa segnalazione di una serie di anomalie rilevate nella contabilità delle società e nella prosecuzione dell’attività di assistenza fiscale.
A nulla, pertanto, sono valse le argomentazioni difensive del consulente fiscale, che non solo sosteneva di non aver partecipato alla creazione del meccanismo fraudolento posto in essere dagli amministratori della società ma, al contrario, di essere egli stesso vittima di questo disegno illecito.
Più nel dettaglio, il commercialista affermava di essere stato all’oscuro delle gravi anomalie contabili attuate dagli amministratori, motivo per cui non poteva dirsi responsabile dell’illecito tributario a titolo di dolo eventuale. Tuttalpiù, evidenziava il professionista nelle linee di difesa, poteva essere tacciato di negligenza e superficialità nel controllo.
In conclusione, si configura una responsabilità penale in capo al consulente fiscale (nel caso di specie commercialista) se si dimostra che lo stesso pur consapevole dei propositi illeciti dei clienti o, ad ogni modo, cosciente delle alterazioni apportate dagli stessi sulla documentazione contabile, non si opponga all’inoltro delle dichiarazioni né segnali le anomalie.
È bene, infine, osservare che il medesimo discorso in termini di responsabilità che ricade sul professionista in concorso con i clienti, può valere – per analogia argomentativa – anche per il reato di emissione di fatture per operazioni inesistenti e in relazione al reato di indebita compensazione.