Società di capitali o di persone? Il nodo del passaggio generazionale

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Perché redarre correttamente le clausole di circolazione delle partecipazioni in società di capitali è essenziale per la resistenza del patrimonio familiare alla prova del tempo

A seconda che nel proprio patrimonio vi siano società di capitali (società per azioni, ordinarie o in accomandita, e a responsabilità limitata) o di persone (società semplice, non commerciale, o società commerciali come la società in nome collettivo o in accomandita semplice) cambiano gli scenari di devoluzione generazionale e, quindi, i vincoli e gli strumenti della pianificazione successoria. La circolazione mortis causa delle partecipazioni in società di persone è di regola lasciata alla discrezione dei soci superstiti, ai quali spetta la facoltà di decidere se liquidare gli eredi o i legatari del socio defunto ovvero di consentire loro l’ingresso nel capitale.
La liquidazione della quota deve avvenire entro sei mesi dal giorno in cui si è verificato il decesso. La valorizzazione della quota deve essere effettuata sulla base della situazione patrimoniale della società a tale data, tenendo conto anche dell’avviamento. Inoltre, gli eredi partecipano agli utili e alle perdite relative alle operazioni in corso alla data del decesso del socio. Tuttavia, i soci superstiti possono derogare a tale disciplina potendo convenire, all’interno dell’atto costitutivo, di sciogliere anticipatamente la società (in tal caso la liquidazione della quota avviene nel contesto della più generale liquidazione della società). Ovvero, sempre nel contratto sociale è possibile pattuire di proseguire l’attività sociale con i successori del socio defunto, purché questi ultimi vi acconsentano (cd. “clausola di continuazione”).
In quest’ultimo scenario, l’accettazione dei successori del socio defunto al loro ingresso nella compagine sociale rappresenta un momento fondamentale: non si può divenire soci illimitatamente responsabili senza il proprio consenso. D’altro canto, altrettanto essenziale è la volontà dei soci superstiti. Partendo da una controversia di natura squisitamente tributaria, la Corte di Cassazione (ordinanza 1216 del 21 gennaio 2021) ha recentemente ricostruito il fenomeno da un punto di vista civilistico e ci fornisce l’occasione di parlare di un aspetto fondamentale della riflessione sui passaggi generazionali. Secondo la Corte, la continuazione nella società del successore del socio defunto avviene, tecnicamente, per rinuncia al credito di liquidazione e lo status di socio si acquisisce come contropartita alla rinuncia monetaria alla liquidazione, tramite l’attribuzione di una nuova quota. Da questo passaggio discende che si diventi soci per continuazione solo all’atto della rinuncia e non invece con effetto retroattivo all’apertura della successione. In sostanza, l’accesso al capitale delle società di persone è precluso agli eredi del socio, cui spetta solamente un diritto di credito nei confronti della società. In successione cade non la quota, ma il credito equivalente al suo valore. Ne consegue che qualora eredi o legatari del defunto si accordino con gli ex soci del defunto affinché il loro credito sia invece “convertito” nella quota di partecipazione nel capitale della società, il subentro nella posizione di socio non è effetto della successione (testamentaria o meno) ma proprio di tale accordo. Nelle società di capitali vige, invece, un generale principio di libera trasferibilità mortis causa. Infatti, alla morte del socio, di regola, gli eredi succedono al socio defunto e acquisiscono la partecipazione del de cuius, facendo il loro ingresso nella compagine sociale (articolo 2469 del Codice civile). Ciò fatto salvo che lo statuto sociale non preveda delle eccezioni, purché compatibili con le regole di legge in materia di successione, con le quali i soci superstiti, infatti, possono impedire o limitare l’ingresso degli eredi del socio defunto nella compagine sociale.
A titolo esemplificativo, è possibile stabilire l’intrasferibilità assoluta delle quote ovvero subordinare l’ingresso degli eredi al gradimento da parte degli organi sociali, di soci o di terzi. O, ancora, prevedere la consolidazione della quota del defunto in capo agli altri soci. Tali clausole possono, da un lato, impedire o limitare l’ingresso degli eredi del socio nella compagine sociale, dall’altro non possono tuttavia mai avere l’effetto di impedire agli eredi di ottenere la liquidazione della quota del defunto, in alternativa all’acquisto della qualità di socio. Al pari di quanto avviene nelle società di persone, in tal caso al momento della morte del socio, sorge in capo agli eredi del de cuius un diritto di credito alla liquidazione della quota secondo l’articolo 2284 del Codice civile. È evidente come la redazione di uno statuto su misura risulti cruciale al verificarsi della morte di un socio, non potendocisi accontentare delle regole ordinarie. Con l’inserimento, in statuto, di opportune clausole, i soci possono “blindare” l’assetto proprietario, limitando il rischio di ingressi non graditi. Lo strumento testamentario è spesso un necessario complemento a tale fine.
Si badi bene che, al di là di considerazioni personali e soggettive, l’omogeneità di interessi e di aspettative è un valore oggettivo da preservare, se si abbia a cuore la continuità del patrimonio societario. È esperienza comune che il patrimonio – che esso sia aziendale, agricolo, finanziario o immobiliare – può essere irrimediabilmente compromesso da una frammentazione disordinata della compagine societaria, che si riflette in conflittualità gestionali.
L’utilizzo dello strumento delle società semplici ovvero una accorta redazione delle clausole di circolazione delle partecipazioni in società di capitali è essenziale per la resistenza del patrimonio familiare alla prova del tempo. Quando asset protection e pianificazione successoria si incontrano.

 

Articolo tratto dal magazine We Wealth di marzo 2021

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