Stando alle cronache, è già capitato infatti che, passato a miglior vita l’investitore in criptovalute, gli eredi non fossero in grado di entrarne in possesso, non potendo risalire alla chiave crittografica privata necessaria a operare su tale tipologia di strumenti (chiave da accoppiare a quella pubblica, pena la totale impossibilità di disporre di tali criptovalute).
Chiunque detenga criptovalute, e abbia in mente una pianificazione successoria, dovrà quindi premurarsi di custodire, e in qualche modo condividere, lo strumento tecnologico che ne consenta il passaggio: la scelta è ormai ampia, e va dalla tradizionale stampa su carta della chiave pubblica e della chiave privata (paper wallet) alla gestione attraverso un apposito software da installare sul pc o sullo smartphone (software wallet), per finire con l’utilizzo di un portafoglio su internet (web wallet) detenuto da un intermediario.
A eccezione della carta (paper wallet), appare quindi utile tenere traccia di password e siti senza i quali, purtroppo, le criptovalute rimangono “codici morti” (peraltro, anche nel caso della carta bisogna pur sempre ricordarsi dove è stato riposto il “pizzino”), e condividere con qualcuno l’informazione (ad esempio, un curatore testamentario preventivamente incaricato).
Al di là di questi aspetti pratici, ma fondamentali, resta poi da stabilire, in ottica fiscale, come trattare le criptovalute nell’ambito successorio.
Ne discende, allora, che dovrebbe risultare applicabile l’articolo 9, comma 2, del D.lgs. n. 346/90, secondo il quale “si considerano compresi nell’attivo ereditario denaro, gioielli e mobilia per un importo pari al dieci per cento del valore globale netto imponibile dell’asse ereditario anche se non dichiarati o dichiarati per un importo minore, salvo che da inventario analitico redatto a norma degli articoli 769 ss. C.p.c. non ne risulti l’esistenza per un importo diverso”.
In altri termini, nella quota forfettaria del 10% dovrebbero ricomprendersi anche le criptovalute, a prescindere dal loro valore effettivo, con la conseguenza che le stesse non dovrebbero essere ricomprese (in via analitica) nella dichiarazione di successione. Del resto, la Suprema corte (vedi Cass. Civ., sez. V, n. 4751 del 25 febbraio 2008) ha stabilito che “è indiscutibile l’incremento dell’imponibile nella misura del dieci per cento, quale che sia il valore effettivo di denaro, gioielli e mobilia esistenti nell’asse. Infatti, neppure l’amministrazione sarebbe ammessa, come in passato (Cass. civ. n. 5773 del 2000), a provare un valore di tali beni superiore a quello presunto”.
Nel caso delle criptovalute (almeno quelle detenute direttamente, e non per il tramite di un intermediario finanziario) la norma citata appare di fatto (legittimamente) aggirata, dal momento che i destinatari dei lasciti di criptovalute (in possesso di codici, password o “pizzini”) potranno entrare in possesso delle stesse, a prescindere dalle vicende fiscali, successorie e non, che possano riguardarle.