Ferrero sul podio della reputazione. Tra le banche spicca Intesa

26.8.2020
Tempo di lettura: 3'
Ferrero, Ferrari e Barilla conquistano il podio delle 100 imprese con la migliore reputazione in Italia. Ma perché oggi viene considerata un asset strategico per definire il valore di un'azienda? We Wealth ne ha parlato con Lucio Lamberti, professore ordinario di marketing alla School of management del Politecnico di Milano
Nella top10 si posizionano anche Luxottica, Eni, Lavazza, Armani e il Gruppo Fca
Nel settore bancario e assicurativo, invece, Intesa Sanpaolo guadagna il primo posto, seguita da Unicredit, Assicurazione Generali, Banca Mediolanum e Ubi Banca
Risultati economico-finanziari, qualità dell'offerta commerciale, capacità di attirare e trattenere talenti, ma anche l'impegno ambientale, l'empatia e l'innovazione nella comunicazione digitale. Sono solo alcuni dei fattori che hanno contribuito a determinare la classifica delle 100 imprese con la migliore reputazione in Italia, secondo un'indagine elaborata da Ales Market Research sulla base della metodologia Merco e verificata in modo indipendente da Kpmg. Ferrero, Ferrari e Barilla conquistano il podio, ma non mancano anche le big dell'universo finanziario, come Intesa Sanpaolo, Unicredit e Banca Mediolanum.
Semaforo verde per il made in Italy, con ben otto aziende nella top10: alla spalle di Ferrero, Ferrari e Barilla si posizionano infatti Luxottica, Eni, Lavazza, Armani e il Gruppo Fca, accompagnate da Google e Samsung. Un dato, spiega Tommaso Pronunzio, partner e ceo di Ales Market Research, “che dimostra ancora una volta la vitalità delle aziende italiane e fa ben sperare per il futuro del nostro Paese”. Nel settore bancario e assicurativo, invece, Intesa Sanpaolo guadagna il primo posto, seguita da Unicredit, Assicurazione Generali, Banca Mediolanum e Ubi Banca, rispettivamente alla 25esima, 35esima, 41esima, 53esima e 59esima posizione nella classifica generale.

Fonte: Risultati Ales Merco Italia reputazione aziendale 2020
La ricerca ha coinvolto 1.346 soggetti divisi in tre categorie: 246 dirigenti e manager di imprese attive in Italia con un fatturato superiore ai 10 milioni di euro, 1.000 consumatori e 100 esperti tra analisti finanziari, giornalisti, responsabili di Organizzazioni non governative e social media manager. Ogni categoria, precisa una nota, ha valutato le imprese secondo diversi fattori e ha ottenuto un peso differente nella definizione del ranking. Se da un lato i dirigenti e i manager d'azienda hanno considerato aspetti come l'etica, la responsabilità d'impresa, l'innovazione e la dimensione internazionale, dall'altro gli esperti hanno posto sotto osservazione la qualità delle informazioni fornite, l'impegno verso la comunità o l'innovazione nella comunicazione digitale. Diverse ancora le variabili giudicate dai consumatori, come il rapporto qualità-prezzo, l'empatia e, infine, la reputazione generale.
Ma cos'è la reputazione e perché oggi è considerata un asset strategico per definire il valore di un'azienda? “Il rema del rischio reputazionale e, più in generale, della reputazione d'azienda è stato da sempre molto dibattuto – spiega a We Wealth Lucio Lamberti, professore ordinario di marketing alla School of management del Politecnico di Milano – La reputazione, in particolare, ha a che fare con una valutazione soggettiva dell'immagine, della desiderabilità, dei valori e degli attributi di un'organizzazione e, in quanto tale, è una grandezza molto difficile da misurare scevra da pregiudizi e preconcetti”. Il rischio reputazionale, aggiunge, rappresenta la possibilità che ci sia una discrepanza tra quello che viene comunicato e percepito e quello che un'impresa è in realtà.
“Numerose ricerche – spiega Lamberti – evidenziano che tra i vari rischi, come quelli operativi o quelli di mercato, quello di vedere compromessa la propria reputazione è considerato il più rilevante per gli amministratori delegati. Questo perché la costruzione della reputazione si basa su un incrocio tra segnali mandati dalle imprese e preconcetti presenti sul mercato, il che significa che le azioni reali delle aziende possono modificare o rafforzare la reputazione ma quella agli occhi degli stakeholder resterebbe comunque la più forte”.
E all'epoca dei social network tutto diventa più complesso. “La nostra mente non lavora in condizioni di perfetta razionalità – continua Lamberti – spesso l'essere umano cerca di rifuggire il concetto di fatica e usa delle scorciatoie, definite in termini tecnici bias. Il confirmation bias è quel fenomeno attraverso il quale, quando cerchiamo un dato o un'informazione, tendiamo a trovare in essi la conferma di un preconcetto e non elementi che ci facciano cambiare opinione”. In questo contesto, spiega, gli algoritmi dei social network tendono a favorire la nostra esposizione a contenuti allineati con i nostri gusti, “complicando gli sforzi di informazione reale” e incidendo anche sui valori di borsa e di capitalizzazione di un'impresa. “Basti pensare alle società farmaceutiche. Quando sono girate le prime notizie sui vaccini, i loro valori borsistici sono saliti alle stelle, anche quando non c'erano delle evidenze specifiche per le quali si poteva dire che avessero tra le mani qualcosa di concreto”, precisa Lamberti, che conclude: “Casi storici hanno visto i valori borsistici delle aziende calare del 70% in relazione a situazioni che non hanno cambiato di una virgola fatturato, costi e portafoglio prodotti. Questo lascia ben comprendere la portata del rischio reputazionale”.
“Numerose ricerche – spiega Lamberti – evidenziano che tra i vari rischi, come quelli operativi o quelli di mercato, quello di vedere compromessa la propria reputazione è considerato il più rilevante per gli amministratori delegati. Questo perché la costruzione della reputazione si basa su un incrocio tra segnali mandati dalle imprese e preconcetti presenti sul mercato, il che significa che le azioni reali delle aziende possono modificare o rafforzare la reputazione ma quella agli occhi degli stakeholder resterebbe comunque la più forte”.
E all'epoca dei social network tutto diventa più complesso. “La nostra mente non lavora in condizioni di perfetta razionalità – continua Lamberti – spesso l'essere umano cerca di rifuggire il concetto di fatica e usa delle scorciatoie, definite in termini tecnici bias. Il confirmation bias è quel fenomeno attraverso il quale, quando cerchiamo un dato o un'informazione, tendiamo a trovare in essi la conferma di un preconcetto e non elementi che ci facciano cambiare opinione”. In questo contesto, spiega, gli algoritmi dei social network tendono a favorire la nostra esposizione a contenuti allineati con i nostri gusti, “complicando gli sforzi di informazione reale” e incidendo anche sui valori di borsa e di capitalizzazione di un'impresa. “Basti pensare alle società farmaceutiche. Quando sono girate le prime notizie sui vaccini, i loro valori borsistici sono saliti alle stelle, anche quando non c'erano delle evidenze specifiche per le quali si poteva dire che avessero tra le mani qualcosa di concreto”, precisa Lamberti, che conclude: “Casi storici hanno visto i valori borsistici delle aziende calare del 70% in relazione a situazioni che non hanno cambiato di una virgola fatturato, costi e portafoglio prodotti. Questo lascia ben comprendere la portata del rischio reputazionale”.