Creative Harbour, surfisti sull’onda del remote working

Laura Magna
Laura Magna
13.3.2023
Tempo di lettura: 5'
La sede legale è ad Aosta, dove i founder sono nati e cresciuti. L'obiettivo? Dare nuove forme al lavoro da remoto, con co-working e co-living nei luoghi più belli del pianeta, capaci di stimolare produttività e creatività. Strizzando l’occhio allo stile di vita prediletto della Gen Z che inizia a farsi strada nel mondo degli adulti. Una formula vincente su cui ha scommesso anche Talent Garden

Pirati valdostani con il sogno di cambiare il mondo del lavoro. L’assist per dare concretezza a un’idea che ha sempre aleggiato nelle teste di Simone Lattanzi, Alessandro Renna e Matteo Marchesano, founder di Creative Harbour, è arrivato con la pandemia e con la connessa esplosione del remote working. “Ci eravamo conosciuti molti anni prima sui banchi di scuola, ad Aosta – dice a We Wealth Alessandro Lattanzi, in collegamento dalla Harbour House di Fuerteventura, sullo sfondo natura lussureggiante e un cielo terso estivo – io e Simone gestivamo due discoteche diverse della nostra zona, da competitor; poi le nostre professioni si sono trasformate, ci siamo dedicati al visual, foto e video; infine abbiamo traslato l’attività nel digitale. A un certo punto, a inizio 2020, è Simone ad avere un’idea: vuole sviluppare insieme un business su viaggi e sostenibilità”.



Fail fast all'italiana

È un primo tentativo, che va male, inevitabilmente: a marzo esplode il Covid e i traffici aerei e anche terrestri vengono del tutto azzerati anche tra regioni italiani. Ma il fallimento è solo norma, per una startup, anzi è bene che avvenga in fretta, fail fast è il mantra della Silicon Valley, in modo da poter correggere il tiro rapidamente senza sprecare troppe risorse. “Erano anni che entrambi vivevamo da nomadi digitali – prosegue Alessandro – mixando questa attitudine con il tema del viaggio sostenibile, è nata Creative Harbour. Siamo a inizio 2021: in un mese abbiamo ideato il progetto, quello di portare un gruppo di remote worker per due settimane in un luogo ameno; trovato la prima location a Gran Canaria. È stato un successo: a quel punto si è unito anche il terzo socio, Marco, e abbiamo iniziato a strutturare l’organizzazione”.


L'incontro con Talent Garden

Sulla loro strada i tre surfisti incontrano Matteo Dattoli, l’enfant prodige di Talent Garden, che nel novembre 2021 sottoscrive un primo round, pre-seed, di finanziamento. Si tratta di un piccolo investimento (100mila euro) ma utilissimo in quella fase. Ad aprile 2022 Talent Garden fa un ulteriore passo, entrando nell’azionariato di Creative Harbour, con l’obiettivo di accelerarne la crescita contribuendo a completarne il modello. “Secondo una ricerca di Willis Towers Watson, entro due anni solo due dipendenti su cinque lavoreranno in presenza e crescerà il numero di lavoratori digitalmente connessi che sono anche disposti e in condizione di spostarsi (per brevi o lunghi periodi) in altre aree del mondo per opportunità di formazione o per vivere esperienze di community con altri creativi e innovatori, in un mondo fatto di condivisione e collaborazione, senza frontiere di spazio e tempo, proprio come Creative Harbour”, così il comunicato di talent Gardner che annunciava la partnership. Mentre scriviamo è aperto un secondo round, stavolta da mezzo miliardo.

“Creative Harbour – spiega Alessandro – è la trasposizione in business di una filosofia di vita. Si può essere produttivi lavorando con i piedi sulla sabbia e fare le pause tuffandosi tra le onde anziché sostare alla macchinetta del caffè. Ci sono ingredienti come la libertà e la felicità che migliorano la qualità del lavoro. Ebbene, si può essere grandi professionisti, realizzati nella carriera e vivere la vita”.


Un modello di business rivoluzionario nella sua semplicità

Ciò detto, il modello di business è rivoluzionario nella sua semplicità. “Il primo prodotto che abbiamo sviluppato è l’experience di gruppo per remote worker, tipicamente alle prime armi in questo ruolo. Un modo per far sperimentare agli indecisi questo stile di vita: costruiamo tutte le dinamiche in cui si può lavorare e vivere, per due settimane, procurandoci la struttura, con una persona che è il coordinatore a gestire le dinamiche e garantire la sicurezza e la buona riuscita dell’esperienza. L’experience è riservata a un gruppo di 10-12 professionisti che non si sono mai visti e che diventano il cuore pulsante di una community che nasce intorno a loro. Hanno partecipato clienti italiani,  per lo più dipendenti di aziende”.

Le location, per quello che è stata la fase di avvio dell’azienda, erano affittate per il periodo di interesse: “facevamo il booking per le varie location e al raggiungimento del minimo di partecipanti le bloccavamo. Se non avessimo raggiunto il numero, i partecipanti sarebbero stati ricollocati nelle altre experience in corso. Un modello di business che ci ha consentito di testare il prodotto, senza sprecare risorse ed erogare esperienze di qualità”.


Lavorare dove si va in vacanza

Le località sono state selezionate in base alla domanda, ma in generale si tratta di luoghi che uno immagina di vacanza, dove la natura domina e si possono fare tante attività che portano a una riconnessione con l’ambiente e di stimolare creatività e produttività. Fuerteventura, Algarve, Tenerife, Marocco, Puglia e Valle d’Aosta, sono solo alcuni dei “porti” di Creative Harbour: centri di confronto, apprendimento e crescita personale per tutti i lavoratori digitali che vogliono migliorare il proprio stile di vita, costruendo routine che integrino lavoro e vita privata, e acquisire un nuovo mindset e nuove competenze. Costruendo uffici sulle spiagge e le montagne più belle del mondo, Creative Harbour ha intercettato – planandovi sopra quasi come sul surf - la trasformazione culturale impressa dalla pandemia sull’approccio al lavoro e alla formazione. Poi nei mesi appena successivi alla pandemia si è iniziato a parlare di grande esplosione del south working e del big quiti di tutti i lavoratori che, richiamati, in ufficio, preferivano lasciare le aziende per non rinunciare al nuovo stile di vita acquisito. Oggi questi trend sembrano relegati a fenomeni di costumi già sfumati. Ma è davvero così? “Le aziende hanno provato a tornare indietro al pre Covid – conferma Alessandro - ma hanno trovato il muro dei lavoratori che non sono più disposti a trascorrere le loro giornate tra le quattro mura di un grattacielo in una città piovosa. E non è un caco che le aziende abbiamo oggi grossi problemi di retention e acquiring di personale. Siamo in un momento di limbo, in cui le corporate provano a fare piani di lavoro ibridi che però a nostro modo di vedere hanno vita breve”.


Un futuro senza uffici

Perché il futuro, secondo Alessandro, è ineluttabilmente senza uffici. “Che non vuol dire si lavori meno, anzi, noi stessi lavoriamo tantissimo, ma vivendo a pieno”. “C’è un fattore culturale che soprattutto in Italia è difficile da eradicare – aggiunge Simone – quindi la regressione rispetto agli uffici era ampiamente attesa. Ci vuole tempo per adattare processi e organizzazione delle aziende. Ma un fatto è certo: le nuove generazioni non vogliono timbrare il cartellino, tra dieci anni l’ufficio esisterà più. La rivoluzione è in corso ed è una roba enorme che comporta alti e bassi”. Ma il trend è segnato e allora i founder di Creative Harbour stanno lavorando ad attrarre remote worker internazionali verso le loro home. “Stiamo lanciando le Harbour house – continua Alessandro – strutture che acquisiamo con contratti di affitto pluriennale, che dotiamo di un co-working space e di un co-living per ospitare i remote worker per periodo lunghi, da 2 a 4 a 6 mesi o anche oltre”. La prima house sorgerà a Fuerteventura, “puntiamo a inaugurarne altre due entro fine anno, in Marocco e a Bali”.

L’obiettivo a tendere è la costruzione di un ecosistema per tutti i remote worker del mondo. “una rete con nodi in tutto il mondo; dove i remote worker possono spostarsi lungo tutto il corso dell’anno, con la garanzia di trovare ovunque la stessa gamma e lo stesso standard di servizio. E al contempo far crescere la community di questi lavoratori senza sede fissa”. E l’aspetto di condivisione è altrettanto cruciale: dalla community sono già nate un paio di start-up, qualcuno ha cambiato lavoro, qualcuno è entrato a far parte dello staff di Creative Harbour. Quanto alla gestione finanziaria dell’azienda, tutto l’utile a oggi è reinvestito nello sviluppo, ma con un’ottica conservativa. “Investiamo – precisa Simone - per cercare di creare valore tangibile per l’azienda, molte realtà bruciano capitale in marketing o sviluppo tecnologico; noi invece puntiamo a investimenti sostenibili che durino nel tempo e non siano finalizzati solo al risultato nell’immediato. Stiamo investendo sulle strutture, che oggi sono inserite nei costi operativi ma che in futuro possono diventare asset di valore”. Una necessità che accomuna un po’ tutte le startup italiane, a causa delle risorse scarse che offre il mercato ancora poco sviluppato del vc. “Siamo costretti a essere oculati e lenti – precisa Simone – il che porta però a modelli di business più solidi. Certamente il rischio è che non riusciamo a scalare abbastanza velocemente per aggredire un mercato che di fatto abbiamo inventato”. Forse il destino segnato è di finire nel radar di un Unicorno Usa. 




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Giornalista professionista dal 2002, una laurea in Scienze della Comunicazione con una tesi sull'intelligenza artificiale e un master della Luiss in Giornalismo e Comunicazione di Impresa. Scrivo di macroeconomia, mercato italiano e globale, investimenti e risparmio gestito, storie di aziende. Ho lavorato per Il Mattino di Napoli; RaiNews24 e la Reuters a Roma; poi Borsa&Finanza, il Mondo e Plus24 a Milano. Oggi mi occupo del coordinamento del Magazine We Wealth (e di quello di tre figli tra infanzia e adolescenza). Collaboro anche con MF Milano Finanza.

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