La solidarietà fra Paesi membri rimarrà stabilmente integrata nel sistema comunitario? E come? Marco Buti, capo di gabinetto del commissario europeo Paolo Gentiloni, è intervenuto su VoxEu insieme al professor Marcello Messori (Luiss) per rispondere a queste domande
Il compromesso necessario per realizzare il Recovery fund è stato possibile perché la situazione pandemica è stata straordinaria e ha imposto una risposta comune. In negoziato fra gli stati membri si è concluso con una promessa: il Next Generation Eu (Ngeu) è un progetto temporaneo, legato alla ripresa post-pandemica. Per quanto i Paesi del Sud, come l’Italia, vedano nel Recovery l’inizio di una nuova fase, quello che verrà dopo la conclusione del Ngeu è tutto da scrivere.
La solidarietà fra Paesi membri rimarrà stabilmente integrata nel sistema comunitario? E come? Marco Buti, capo di gabinetto del commissario europeo Paolo Gentiloni, è intervenuto su VoxEu insieme al professor Marcello Messori (Luiss) anche per rispondere a queste domande.
I limiti imposti da Maastricht
Gli autori hanno voluto sottolineare, per prima cosa, quanto la crisi pandemica abbia spinto l’Unione europea verso una risposta ben diversa rispetto a quelle osservate in occasione della Crisi finanziaria (2008) e della Crisi dell’euro (2011). In particolare, nel 2011 fu ritenuto che i Paesi che avevano perso la fiducia dei mercati e che erano ritenuti a maggior rischio in caso di rottura dell’Area euro, avessero la piena responsabilità di riconquistare quella fiducia attraverso misure di austerità. Passò il messaggio, vero meno che fosse, che Grecia, Italia e Spagna fossero finite in crisi per responsabilità esclusivamente nazionali e che quindi toccasse solo a loro (e non a tutti gli stati membri) risolvere il problema. Il supporto dell’Ue avvenne, in seguito, attraverso l’intervento Bce, prima con l’istituzione delle Omt e poi con il Quantitative easing. Quello che allora non fu introdotto in alcun modo furono gli aiuti economici diretti in favore dei Paesi entrati in crisi, finanziati dall’Unione europea. Con il Recovery Fund, l’Europa ha rotto anche questo tabù, ma con un mezzo destinato a scadere.
Qualcosa di simile al Next Generation Eu, tuttavia, potrebbe dover essere introdotto a livello permanente nell’Unione europea. L’attuale assetto dell’Eurozona, infatti, non riesce a garantire una “stabilizzazione ciclica adeguata”. Ovvero, a lasciare l’opportuno spazio di spesa pubblica che serve a mitigare le fasi economiche negative, così come a restringere incoraggiare maggiore prudenza durante le fasi positive, nelle quali, per usare una metafora, è opportuno “mettere il fieno in cascina”.
Gli strumenti per realizzare questa stabilizzazione ciclica sono “la politica monetaria comune e quella fiscale a livello centrale o decentralizzato… più probabilmente una combinazione delle differenti policy”, hanno affermato Buti e Messori. Il trattato di Maastricht, tuttavia, non prevede una capacità fiscale a livello europeo e la sua assenza ha contribuito a rendere l’Unione europea un blocco che si riprende più dalle crisi economiche in modo più lento.
Le regole fiscali di Maastricht, infatti, pongono dei limiti agli eccessi della spesa pubblica, ma non possono obbligare i Paesi che hanno le risorse per farlo a spendere di più. Per questi ultimi è una libera decisione politica, soggetta solo a sollecitazioni non vincolanti da parte della Commissione europea. Questo “coordinamento orizzontale” fra diverse politiche nazionali rende “estremamente difficile raggiungere la giusta posizione fiscale per l’Ue”, scrivono gli autori. In parole più semplici, durante le crisi, le regole europee possono limitare chi spende troppo, ma non il contrario e il risultato complessivo è, nella gran parte dei casi, una spesa pubblica insufficiente, con una ripresa disomogenea e più lenta. Questo punto debole dell’architettura europea avrebbe potuto fare molto male dopo l’arrivo della pandemia, per cui, spiegano Buti e Messori, si è deciso di mettere da parte temporaneamente i vincoli del Patto di Stabilità e di creare una sorta di capacità fiscale comune con il Next Generation Eu. Tutto questo, unito al potenziamento degli acquisti di titoli da parte della Banca centrale europea, ha permesso di potenziare la spesa pubblica finanziandola a tassi d’interesse contenuti. Per quanto possa sembrare un discorso un po’ astratto, tutto questo ha ricadute molto concrete: sono imprese che non falliscono, lavoratori che continuano ad avere un reddito e una capacità produttiva che rimane pronta a ripartire.
“Questa eccezionale risposta politica ha comportato un policy mix più congruente”, hanno dichiarato Buti e Messori, “tuttavia, data la natura una tantum del Ngeu e il grande accumulo di titoli di stato nel bilancio della Bce, anche questa soluzione… è temporanea e non assicura equilibri stabili in futuro”.
Una capacità fiscale europea a lungo termine, le possibili opzioni
Per garantire un adeguato supplemento alla politica economica e fiscale dei governi nazionali, qualcosa dovrà necessariamente subentrare al Recovery fund, quando questo sarà giunto al capolinea. Anche perché finora la sostenibilità dei debiti pubblici è di fatto ricaduta sulle spalle della Bce, attraverso le sue politiche di acquisti di titoli che hanno contribuito a mantenere bassi i tassi d’interesse. Se una quota maggiore della spesa pubblica venisse coordinata a livello europeo, sarebbe più facile per i governi mantenere la spesa nazionale su livelli moderati e ridurre progressivamente i propri debiti sui livelli prescritti nel trattato di Maastricht (60% sul Pil). E, per la Bce, sarebbe più facile ridurre gradualmente il proprio bilancio attualmente ricolmo di titoli di stato.
Buti e Messori hanno suggerito tre possibili opzioni per potenziare la capacità fiscale europea – e l’una non esclude l’altra.
- La creazione di uno strumento europeo che supporti gli investimenti negli stati colpiti da shock “asimmetrici” (ossia non estesi su scala internazionale). Si tratterebbe di una soluzione ispirata allo European Investment Stabilisation Function proposto dalla Commissione Ue nel 2018 – poi finito nel dimenticatoio. Il problema di questa opzione, si chiama azzardo morale. Fornire agli stati la promessa di un cuscinetto europeo li scoraggerebbe dal perseguire una politica economica prudente e a rendere le stesse crisi più probabili, scaricandone i costi ai Paesi membri “più responsabili”.
- L’incremento nel budget europeo dei fondi destinati a finanziare i cosiddetti public goods, come ad esempio la lotta al cambiamento climatico e tutte altre aree di policy che beneficiano di un coordinamento su larga scala. “Anche se non è sempre semplice dal punto di vista del federalismo fiscale”, hanno commentato i due esperti, “la sua struttura di incentivi e la sua progettazione tecnica sembrano risolvibili alla luce dell’evoluzione delle priorità dell’Ue in campo economico, ambientale e geopolitico”.
- Il prolungamento di fatto dello schema del Recovery fund, che prevede trasferimenti europei condizionati alla realizzazione di misure concordate fra i governi e l’Unione europea. Per percorrere questa strada andrebbero superate le resistenze dei Paesi che, non riconoscendo la necessità di una maggiore capacità fiscale europea, insisteranno sulla natura temporanea del Recovery and Resilience Facility. Ma anche i beneficiari netti dei trasferimenti europei dovrebbero accettare un ruolo più invasivo di Commissione e Consiglio, perché il loro consenso sulle politiche da realizzare rimarrebbe necessario per la distribuzione dei fondi europei. Come spesso evidenziato, l’aiuto a livello europeo si ottiene con una parziale cessione di autonomia decisionale a livello nazionale.
“Come dimostra l’esempio di altre unioni monetarie, nel lungo periodo non ci sarà alternativa a un bilancio centrale che fornisca beni pubblici Ue e integri i programmi nazionali di stabilizzazione”, hanno concluso Buti e Messori, “tuttavia, gestire la transizione richiederà scelte politiche complesse e difficili compromessi”. E siamo solo all’inizio.