Dopo oltre un anno, il dibattito sulla riforma della governance europea è ufficialmente ripartito. Ancora una volta i Paesi del Nord e del Sud Europa si confronteranno per ridisegnare i vincoli di bilancio nell’era post-Covid. Ovviamente, partendo da posizioni iniziali assai distanti
La portata della sfida è stata riassunta dal direttore generale del dipartimento Economia e Affari monerari della Commissione europea, Maarten Verwey e dall’economista della Commissione Allen Monks
Riformare la governance europea avrà un impatto importante sui margini di movimento a disposizione dei governi nazionali. Determinerà come e quanto potranno spendere e sulla base di quali parametri.
La portata della sfida è stata riassunta lo scorso 21 ottobre dal direttore generale del dipartimento Economia e Affari monetari della Commissione europea, Maarten Verwey e dall’economista della Commissione Allen Monks, in un intervento pubblicato sul sito del think-tank Cepr.
I deficit e i debiti pubblici europei sono esplosi a livelli, in rapporto al Pil, notevolmente superiori ai massimi osservati durante la Crisi dei debiti sovrani.
Un debito pubblico più elevato espone gli stati al rischio di un rialzo dei tassi d’interesse, che si tradurrebbe in una spesa nettamente più elevata per onorare i debiti contratti. In altre parole, la Crisi Covid, nonostante il progresso politico testimoniato dal Next Generation Eu, ha reso le finanze pubbliche più vulnerabili e in qualche modo dipendenti dal supporto della Bce – che ha dato una grande mano per mantenere bassi i costi sul debito, ma che non potrà continuare all’infinito.
Le regole fiscali europee attualmente in vigore, per quanto sospese, prevedono fra le altre cose la riduzione del rapporto debito/Pil a ritmo prestabilito di 1/20 all’anno per la parte di debito eccedente al 60%. Pertanto, gli Stati più lontani dal target fissato devono tagliare spese e/o incrementare le entrate con l’obiettivo di accumulare un avanzo adeguato a centrare la riduzione del debito prestabilita. Devono fare austerità, in buona sostanza.
Come ha evidenziato lo stesso premier italiano, Mario Draghi, il rischio è che le attuali regole impongano un aggiustamento troppo rapido, che rischia di minare la ripresa e gli investimenti necessari per modernizzare i Paesi.
“La riduzione di rapporti di debito pubblico elevati e divergenti in modo sostenibile e favorevole alla crescita sarà una sfida chiave del dopo-crisi”, hanno affermato Verwey e Monks, “quando le condizioni economiche lo permetteranno, riprendere un percorso di riduzione dei rapporti debito pubblico/Pil sarà essenziale per mantenere le finanze pubbliche sane ed evitare divergenze fiscali persistenti tra gli Stati membri. Allo stesso tempo, una riduzione anticipata eccessiva del rapporto debito/Pil comporterebbe costi sociali ed economici elevati e sarebbe controproducente”.
Trovare l’equilibrio non sarà facile. Visto che i Paesi del Nord (con l’esclusione della Germania) si sono già pronunciati per una riforma del Patto di Stabilità “light”, che punta a modificare più la chiarezza dei processi, che non ad aggredire il problema del possibile freno alla crescita costituito dalle stringenti regole Ue.
“La crisi ha evidenziato il ruolo positivo che la politica fiscale discrezionale anticiclica e il coordinamento europeo possono svolgere nel rispondere a grandi shock economici e contenere le loro ricadute sociali”, hanno sostenuto i due economisti della Commissione europea, “tuttavia, la capacità di fornire stimoli fiscali in tempi cattivi richiede la costruzione di ammortizzatori fiscali in tempi buoni”, hanno sottolineato Verwey e Monks. In parole più semplici, le nuove regole dovrebbero consentire spazi più adeguati per rispondere alle crisi(spendendo di più), ma anche maggiori controlli sulla responsabilità dei governi nei tempi favorevoli, durante i quali si dovrebbe agire con parsimonia per ridurre il debito.
In passato le regole fiscali Ue non sono riuscite a raggiungere questi obiettivi.
Secondo i due autori il nuovo quadro di regole dovrebbe essere più semplice e basarsi su indicatori osservabili. Probabilmente, gli autori si riferiscono all’abbandono del output gap come parametro di valutazione per le politiche economiche nazionali. Quest’ultimo non è “osservabile” perché si calcola sulla base della differenza tra Pil potenziale (un calcolo basato su assunti spesso messi in discussione) e Pil reale previsto dal governo per l’anno successivo (un’altra stima).
Secondo gli autori, infine, “è necessaria una riflessione sul ruolo appropriato del quadro di governance economica per incentivare gli investimenti e le riforme nazionali. La promozione di investimenti pubblici verdi, digitali e che aumentino la resilienza merita un’attenzione speciale, date le sfide a lungo termine che la nostra economia deve affrontare”.